GENERI E STILI DI SCRITTURA.

Prof. angelo Michele Piemontese

In principio era la Kufi che »come il collirio illumina la vista ai dotti« poi il visir abbaside Ibn Muqla (m. 940) elaborò le Sei Scritture (aqlam-i sitta) derivate: tult, nasb, rayban, mubaqqaq, tawqi, riga, con i Mongoli (1250 d.c) apparve la persiana taliq   sgorgata dalle ultime due, infine la nastaliq: così recita lo schema tradizionale della trattatistica calligrafica persiana. La storia dell’evoluzione della scrittura araba è naturalmente più complessa.

L’organicità del sistema sembra fissata nel VI secolo d. C., quello precedente l’Islam. Durante il primo califfato, l’omàyyade (650-750 d.c.), correvano i caratteri della diplomatica galìl ‘eccelsa’ (il padre di tutte le scritture), e delle indotte cancelleresche tumar  rotolo , nisf meta, tult “un terzo”, cui più tardi si aggiunge la persiana dibag: ar. tumar “rotolo”; capsula (di amuleto). Pergamena (tamaro ‘seppellire’), ‘piccolo tomo; carta’, ‘taglio, pezzo; volume a rotolo; tomo’; ar. dibag (pers. anche  dìba) ‘tessuto di seta, broccato’, dibaga ‘prefazione; frontespizio’ (pers. anche dibaca).

Il periodo del successivo califfato abbaside fu cruciale nella formazione di tutta la civiltà arabo-islamica: il suo centro geopolitico, l’Iraq, la fucina viva della nuova cultura del mondo; la fresca capitale, Baghdad, davvero “dono di Dio” come dice il suo nome iranico. Si producono i mutamenti decisivi della scrittura (750-950 d.c) teorizzati quindi nella trattazione; perfezionati, i principi allora elaborati restarono validi fino all’arrivo dei Mongoli perciò che concerne la Persia, quando cominciò una diversa epoca per l’arte della scrittura e la produzione del libro, il cui fulgore pieno fu con 1’umanesimo timuride (XV secolo). Le magnifiche realizzazioni timurdi determinarono le direttrici per le scuole scrittorie e librarie safavide e moghul (Persia e India, XVI-XVII secolo; idem per l’ottomana), e qagiara (Persia, XIX secolo; il XVIII, illuminismo per noi, fu oscurantismo per loro, sembra): ciascuna delle quali seguì caratteristici gusti propri. I grandi centri che interessarono la Persia, Cairo, Baghdad, Tabriz, Esfahan, Shiraz, Mashhad, Herat. Però molto, troppo del periodo antico, pre-mongolico, è andato perduto.

  1. KUFI. Poiché la fede consacra la scrittura, e ne è consacrata la prima ad entrare nel libro, fu anche la prima canonizzata con la codificazione coranica (c. VIII-IX secolo). È la kufi ‘cufica’ unica fra tutte le scritture islamiche a prender nome da un suo luogo di nascita: la città di Kufa (Iraq sud-occidentale, sul ciglio della via per l’Arabia), fondata all’alba della conquista da una colonia araba (638 d.c.). Di origine epigrafica, dotata dell’autorevolezza simbolico monumentale, adattabile alla pergamena, fu la sola scrittura dei Corani degl’inizi (c. VIII-metà X secolo).

La Cufica non era esattamente l’ideale per gli scopi prefissati, presentando: numero e genere limitati di lettere, in embrione, contratte e uniformi, sguarnite di punti diacritici e indecifrabili. Il Corano la sciolse, distinse, arricciolò; corpo dei caratteri schiacciato sul rigo, statico, tracciato nero (come poi sarà in ogni scrittura) e solido, ‘pennellatura’ di una scorza ingombrante, di lenta esecuzione; effetto voluto: solennità ieratica, impreziosita e un poco animata dalle ornamentazioni. Snellita, rifilata, nell’angolazione, scandita la  cufica, scrittura del tipo ‘posata’, conservò l’immobilismo e lo squilibrio, fra registro lineare compatto e registro superiore della fascia quasi sgombro, congeniti; cedette il posto alla nashì, che parrebbe sgusciarne fuori, quale ossatura dall’involucro (X-XI secolo). Mentre i corani accolgono altre scritture più svelte, al passo con il moto di divulgazione della fede, la cufica è dirottata verso le parti di facciata e ornamentali del libro: aggiunta di palmette in alto, uncinature in basso, accerchiamento con un tracciato di sottofondo a spire vegetali ne camuffarono la pesantezza originaria, «smuovendola» nella fascia scrittona. Fu il modello del trattamento classico delle rubriche nei Corani e libri di lusso: scrittura a ganci, specialmente la tult in un campo di volute vegetali, macchiate eventualmente da piccoli fiori e foglioline.

I progressi della crescita esecutiva e ornamentale della cufica, registrati sul medium cartaceo, ne stimolarono lo sviluppo artistico su marmo, mattone, stucco, ceramica, metallo e stoffa, dove si mostrò invece duttile e ricca di gamme: rettangolare, fiorita, ricamata, rotonda, stilizzata, perfino ‘scorrevole’ (in ceramica). Votata all’imperiosità e alla pietrificazione, la cufica trovò la sua vera realizzazione nell’epigrafia monumentale e nell’ornamentazione architettonica, dove fu solida, marcata, straordinariamente longeva, un po’ come la capitale quadrata romana. Scrittura di specie ideologica, preferita dalla moschea, s’inerpica sui pinnacoli, si staglia in facciate e pareti, s’annida nelle mattonelle, esprime ideali e dettami di dinastie (quale la Ghaznavide dell’Iran, XI-XII secolo): le sue varietà classiche, sole, si definiscono per regioni politiche; qualcuna delle ornamentali, e delle rubriche librarie (dove essa fu usata fino al XV secolo c.), ha carattere vicino alla gotica, che secondo qualche autore proprio da essa avrebbe tratto impulso (cfr.; si ricordi anche il probabile contatto fra scrittura araba e scrittura latina nel caso della «corsiva mozarabica»).

  1. MUHAQQAQ. Contemporaneamente alla formazione della minuscola carolina nelle curie del Regno franco, le cancellerie dell’Impero arabo lavoravano all’elaborazione di una corsiva emancipata dalla coltre antica di scribi e lapicidi. Le cancelleresche Omàyyadi erano grosse e tozze (la tumar e compagne richiedevano enormi calami) a scarsa funzionalità, ma sotto il califfo Abbaside Harun al-Rascid il raggio d’azione della diplomazia musulmana s’era esteso, avvalendosi della carta, dai T’ang a Carlomagno. Ne venne fuori la «califfale» irachena, la muhaqqaq ‘realizzata’. 

Questa è scrittura compatta, stagliata, decisa, ariosa. Affila identi dei grafemi (classe IV), ne tornisce gli occhielli (III, V-VI, VIII), allunga i lacci distesi (VII-VIII), arcua le code, affonda sotto la linea del rigo i tronconi (XII-XIII) facendoveli poi risalire con propaggini a uncino, infilza il tutto con alte aste perpendicolari (Vb, IX-X), costellandolo di una netta puntuazione romboidale. Risultato, nella fase matura: barre verticali (sopra) posanti a grande angolatura sull’asse di scorrimento, dove si svolgono nelle ondulazioni dei nodi (centro, base), o allacciano fino al limite opposto dei ferri sciabolati (sotto la linea del rigo); l’asta dell’alif fa da sestante o barra di timone, scandisce gli spazi interietterali, compassa gli angoli, definisce l’altezza della fascia. Maestosa di conformazione, impetuosa per i tratti “spazzolanti” , la muhaqqaq fu la scrittura favorita dei corani a grande formato, segnando forse l’apice delle corsive (secoli XIII-XIV), ma crescendo fin troppo in dilatazione di spazi e allungamento di lacci, e tirandosi dietro il tratteggio denso della cufica, la cui aulicità liturgica restava ineguagliata. Spreco eccessivo perché questa «cubitale» facesse molto cammino, anche soltanto come decorativa, sulla strada del libro, che la scartò infine a favore della tult.

Poiché il sistema non prevede la differenziazione del grafema in maiuscola e minuscola lungo il sintagma, ne interpunzione, si rimedia con il graduare la scala del modulo su varie misure: gali ‘splendente, radiosa, ostentata; piena’, grande; hafì ‘annidata, nascosta; sottile’, minuta; guhàr ‘polvere’ : minuscolissima, tanto da essere distinguibile a occhio annacquato di collirio, in mancanza di lente d’ingrandimento, e piuttosto delizia, divertissement calligrafico in cui si specializzerà la nashì, non per nulla la più ordinata delle scritture. La variazione di scala è però ammessa, praticata, in parti diverse del libro (i titoli / il testo), che solitamente ne comporta e accetta un’unica, la mediana tra la hafì e gali, pertanto anonima, salvo quando si abbia un testo misto o bilingue (es. dizionario, commento, arabo-persiano, turco-persiano).

Pure, in tal caso è buona norma adottare una grafia in corpo maggiore per il testo principale, e una di tipo diverso in corpo minore (es. nashì e sekaste) per il secondario, a inchiostro ugualmente nero, o rosso per il testo glossato; è regola comune scrivere in una sola grafia, scala e coloritura, come vuole l’esigenza fondamentale di compattezza del sistema, limitandosi a una sopralineatura in rosso delle parole/frasi richiamate.

La bicromia nero (testo ordinario e principale) / rosso (testo secondario o membro particolare, eccezionale del primo) assicura l’alternanza grafica, con molta maggiore chiarezza del «tondo/corsivo» dei nostri libri stampati, siccome sul foglio bianco e lucido di quelli persiani manoscritti spicca il più chiaro contrasto, più lucente alla vista, tracciato nero continuo/punta di rosso (cfr. gl’incunaboli greci in rosso e nero, l’incipit+/explicit dei mss. tardo-antichi in rosso e nero alternato ecc.). Naturalmente, sempre in titoli e glossature, il libro di lusso ricorre a inchiostri colorati o iscrizioni dipinte, e altre minuzie di fiorettatura (es. per spaziare convenientemente i versi della poesia), ma il canone è anche qui: testo netto, solido, nero, continuo, puntine e linee rosse.

Come già si è visto dalla cufica, il libro seleziona le scritture prodotte dal sistema, e ne ripartisce i compiti, non rifiutandone a priori nessuna (arrivano, o si assegnano, al libro dopo la prova del Libro). Le scoordinate, ingombranti, sgraziate, civettuole o prepotenti, sono sfavorite, finiscono negli spazi predisposti di rubriche e cartigli. La rayhàn ‘basilico’ o rìhanì « basilica », derivata a scala ridotta della muhaqqaq, perciò economa, ne smorza l’estroversione: restringe la spaziatura sul rigo, modera lacci e tratti, ma, con quel suo nome, non ne corregge certo l’impostazione esuberante. Alla breve, finì anch’essa la carriera con il grado delle pensionate del lusso librario: ornamentazione delle rubriche e testate.      

  1. TULT. Rubricata anche questa, tra le cancelleresche califfali era emersa la tult (o tulut, ‘un terzo’, non è chiaro rispetto a cosa: forse, l’inclinazione dei tratti verticali dei grafemi in confronto alla retta del rigo; secondo qualcuno ⅓ è il modulo originale di questa scrittura rispetto alla misura del rotolo tradizionale di papiro, cm. 14.5X18). Fra prolungamento dei tratti orizzontali ed elevamento dei verticali, restiamo nell’esagerazione tipologica della muhaqqaq, e, contro la finitezza di questa, sul ramo della goffaggine.

Gli sgangherati, però, fanno pasticci senza molestia: smuovono le acque, fanno colore, mettono allegria. Sproporzionata, malpiantata, la tult regge così il passo grazie alla sua flessibilità: l’ondulazione della muhaqqaq sulla linea mediana è estesa all’intero ductus, con caratterizzazione e omogeneità generali. I lacci dei grafemi si trovano ora a essere piegati e stesi (curvati, contratti, allungati) a piacere nel senso del tracciato (avanti a sinistra), che anzi favorisce, per la possibilità di sovrapporre elementi” grafici finali di striscia a lettere o tratti che lasciano uno spazio vuoto sulla destra, e di predisporsi per un movimento a fisarmonica, con cui è garantito il gioco della spaziatura.

Ma la malleabilità, se fa comodo in una singola fascia scrittoria, nel riempimento di un primo rigo, non è replicabile in successione infinita, come per una vera corsiva, che è assegnata dalla legge dell’uniformità. Se non ha trovato questa, il libro ha in compenso la rubricatrice adatta alle sue parti di rappresentanza, la standard del cartiglio, dove la tult si ebbe posto fisso o prevalente, e uso ininterrotto; primato fra le consorelle aqlàm-ì sitta, che non toccò neppure la corsiva ideale nashì, per un lungo periodo in desuetudine, causa un rivolgimento del gusto librario persiano. Al pari di ogni scrittura ornamentale che si rispetti, la tult servì la decorazione monumentale e artistica; in età Timurido-Safavide, eseguita su mattonelle lustrate, fu la galì tout court, e spesso la variante musalsal ‘incatenata’ .

Incrocio di tult e della ‘cancelleresca’ (dìwànì) persiana sembra la tugrà, la concatenata per eccellenza, firma monumentale a preziosi inchiostri colorati, icona meandrica, piramide di grafia e carta d’imperatori Safavidi e, specialmente, Ottomani (ma anche, a inchiostro nero, di règoli, governatori e Visir), che talora s’intrufola nella chiusura del libro pomposo. Qui, nel colofone dove è una sottoscrizione autografa, tipicamente nei corani di grande formato, scivolano di solito altre scritture da cartiglio, indotte della tult: tawqi ‘registrazione, annotazione, siglatura’, e la sua variante a scala ridotta riqà ‘(da) pezza, cedola, biglietto’, esercitate dai calligrafi su singoli foglietti, come la mista ‘scorrente, brava’, a sua volta tipica delle intestazioni oblique dei firmani (diplomi) Timùrido-Safavidi.

Proporzionata nell’assetto, sanzionata, la tult è scrittura coranica, come muhaqqaq e rayhan.

  1. NASHÌ. Omologazione di tratti grafemici ed equilibrio funzionale alla loro giusta esecuzione (dimensione, forma, angolatura, spaziatura, cadenza) sono trovati con la nashì ‘trascrizionale’, o nash ‘trascrizione’, da ar. nasaha ‘trascrivere, copiare’, nusha ‘scritto, copia; manoscritto, codice, libro’, (pers. di solito nusha-yi hatti nelle ultime accezioni). Di origini, sembra, epigrafiche e introdotta (meglio sanzionata) nella cancelleria califfale da Ibn Muqla, «l’inventore» delle sei consorelle, la nashì si trova già sulle vette della perfezione in un celebre corano d’Ibn Bawwàb (1000 c.). È la prima, vera corsiva libraria, l’esito della complessa sperimentazione plurisecolare di kufì, muhaqqaq, rayhan e tult.

Sostanziale, concreta, ferma-e-mossa, la nashì trova il modulo medio, produttivo, di tali « corsive », aggiustandone contorno, ossatura, inclinazióne, distribuzione, efficacia del ductus, la cui ondulazione ritmica è seminascosta, portata dal proprio flusso interno, non basaltica (kufì) o esagitata (muhaqqaq) o scombinata (tult). La chiave del sistema grafico, che schiude il ductus fluente e chiaro, quindi adattabile all’espressività calligrafica, da cui è arricchito e variato senza però lasciarsi spostare dai connotati fondamentali, è la coordinazione degli sbalzi alto/continuo/basso e del contrasto legatura/cesura nell’azionamento del calamo sul piano del foglio, lungo la linea del rigo. La praticità operativa è raggiunta.

La nashì è la scrittura coranica e libraria del secondo clàssicismo islamico (il primo persiano, c. metà secoli X-XIII), la più diffusa e importante dall’Egitto all’«Islàm orientale», la Persia e regioni circonvicine (da essa egemonizzate); l’Occidente musulmano fu invece dominio della ‘maghrebina’, corsiva cugina della nashì.

Questa si adattò bene, sulla grande scala, alle esigenze del libro ornato, miniato, di lusso e monumentale; altrettanta validità dimostrò nei libri comuni, dove spiccò anzi intera la sua vitalità; l’apice, sia della standardizzazione nel libro scarno, sia della canonicità nel libro di pregio, si estende dal Mille al Trecento circa.

Sotto i Mongoli e i Timuridi parte e s’accentua la sua parabola discendente nella frequenza dell’uso, soprattutto per i libri di bella letteratura, causa il sorgere di una nuova corsiva concorrente, di generazione persiana. Forse perché figlia dell’autentica madre; la kufì «cresciuta» sui libri, la nashì possiede una certa spigolosità angolare, conserva una sfumatura di rigidità nella sua linea caratteriale, che è poi l’essenza di questa « tonda minuscola », classificabile come una semicorsiva: il tenue rallentamento che ne consegue sul piano esecutivo, è precisamente l’appoggio segmentale e l’attimo di calma che conviene a una scrittura «ragionata» qual è la nashì. Misurata sulla chiarezza mediana, essa è guida alla distinzione per la lettura, e stimolo per la riflessione: trasmette il pensiero, siccome appunto è concepita per «trascrivere» un messaggio. Quando questo è davvero importante, preminente, e détta la scritturazione del libro, con cui non si pongono altri fini ludici, anche nei periodi d’eclissi parziale la nashì resta la tonda libraria insostituibile: allora essa è con maggiore nettezza la scrittura specializzata, oltre che per i corani, per la letteratura storiografica e scientifica.

L’incisività della nashì è canonica, sapientemente modulata, nella copiatura di testi storici, matematici, geometrici, astronomici, e a ben guardare si potrebbero scorgere sue varietà caratteristiche, come la ‘matematico-astronomica’. D’altronde, dopo il declino (secoli XIII-XV) e l’eclissi (secoli XVI-XVIII) la nashì si prese la rivincita: forte della sua natura, il rigore del giusto mezzo, essa fu la prescelta nella stampa (secolo XX). I caratteri standard della nashì sono oggi la scrittura «stampata» normale nell’intero mondo islamico .

  1. NASTALIQ. Ora, la vocazione libraria della nashì, e la sua tendenza alla cristallizzazione, accettano modulazioni sul registro del suo basso ostinato, la distinzione, ma non sopportano di essere troppo tese sulla corda, vuoi dell’elaborazione calligrafica (la quale, più che altro, vi gioca sulle misure scalari), vuoi dell’evoluzione continua della corsiva: è un limite, quando la produzione del libro è diretta da fini e gusti estetici. La nashì era pertanto destinata a’ perdere terreno sul campo librario, quando una nuova arte o concezione di questo si affermò nella Persia di Mongoli e Timuridi (fine secoli XIII-XV), grazie all’incontro della grande esperienza della produzione egiziano-irachena (e, nella Persia stessa, selgiuchide), con la tecnologia esecutiva e pittorica di provenienza cinese: dall’innesto sorse un modo diverso, un gusto più raffinato di scritturazione e ornamentazione del libro.

La scrittura concorrente era la cancelleresca taliq ‘sospesa’, obliqua rispetto al rigo, sorta (sembra) nel XIII secolo, codificata nel XIV, adottata nelle cancellerie post-mongoliche persiane o di scuola persiana (timuride, ottomana, safavide, moghui). Potente e arbitraria, come qualcuno l’ha definita, la taliq premette per entrare nel libro: si era conquistato il nome di tipica scrittura persiana, la prima di madre patria. Ma per riuscirci veramente, aveva bisogno di una corsiva adatta, che ne stemperasse il carattere cancelleresco.

Quale poteva essere, l’ardita, da scalfire la serenità della nashì ?

Questa aveva un limite estetico che la metteva in difficoltà, ma dopotutto, tra le antiche sei sorelle, era la sola evoluta a libraria: non poteva essere sostituita, e pace.

Dunque, una mediazione era necessaria, fra le pretese della taliq e l’integrità della nashì. Sorse la mista nastaliq, artificiale e ibrida anche nel nome (nashi + taliq). Le coincidenze saranno casuali, ma non del tutto insignificanti: suppergiù nello stesso periodo, gli umanisti italiani, insoddisfatti del rigido linearismo della gotica, confezionavano la ‘semigotica’ libraria (cos’altro è la nashì in correlazione alla kufì ?) per giungere all’ariosa eleganza della littera antiqua, raffinata ed inclinata come «cancelleresca italica »; era, in sostanza, grosso modo, la linea di ricerca di umanisti tardo-mongoli e timuridi, persiani e turchi. Innesto di tempi maturi, la nasttflìq «persica» emigrò con i suoi amanuensi verso le aree dove predominava il gusto letterario persiano: Impero Ottomano (già sotto Maometto il Conquistatore) e Moghul, evolvendo in rispettive varietà (grassoccia e pesante l’indiana, di scarsa rifinitezza la turca).

La nastaliq è di tipo sintetico-figurale, e calcolata ad efletto: «assorbimento» del tracciato e dello scritto nella cornice del libro oggetto. Essa ama la stesura lunga e la sfumatura morbida delle lettere: distende e tornisce a pennello i lacci stesi sulla linea del rigo (classi VII, VIII a), unisce e allunga a falce le dentature (IV), ottenendo un tratto orizzontale sinuoso che fa da regolo della fascia scrittoria, come l’asta (X) era il sestante della muhaqqaq– quindi, rassoda gli occhielli (III, V-VI), gonfia a semiluna le code(I-II, IV-V a, IX  b), scioglie il ricciolo (III), immerge le tronche (XII-XIII).

L’obliquità cancelleresca della talìq, appresa la lezione d’angolatura della nashì, è corretta con un ductus disteso e turgido, guida spaziale-lineare,  equilibratrice del campo alto, è la barra allungata di IX a il cui sghembo carattere complessivo s’addolcisce a (S), mentre’ le aste perpendicolari (V b, IX b, X) s’assottigliano, quasi a figurare da «quinte». È un po’ il rovescio dell’impianto della muhaqqaq, che era naufragata nello spreco dello spazio (svuotamento della fascia di scrittura).

Come «distensivo», il tracciato della nastaliq lo riempie invece in pochi getti: in fine di rigo, specialmente con i versi poetici, e frequente la scrittura di un tratto (o lettera) finale sopra uno piatto (es. VII c) con ritorno indietro a destra, e riempimento dello spicchio vuoto in alto. È un ripiego cui ricorrono anche altre scritture (tult, nashi), se non preferiscono rattrappire o accartocciare il carattere che” si viene a trovare al limite del margine sinistro del rigo, invalicabile per il divieto dello spezzamento della parola e la sua alineatura; nella nastaliq il rimedio diventa funzionale, assicurando un  equilibrio maggiore sulla verticale del campo: possibilmente, se e presente la «lettera finale» VII b, lo stacco del tratto soprascritto, rispetto alla linea del rigo, è sanato con lo stiramento a ritroso della coda di VII b, tipo il nostro ghirigoro che sottolinea p. e. una firma. Sanzionata dai calligrafi Mir Ali Tabrizi e Sultan Ali Mashadi (XV secolo), la scorrevole e capricciosa nastcfliq tu la  scrittura libraria preferita fino all’Ottocento, specializzata nel libro d’arte, e. nella rappresentazione del testo poetico o d’intento letterario: entrò in epigrafia (dal XVI secolo), ma tanta civetteria non la rese accetta alla scritturazione coranica.

  1. DIVERSE. Variante safavide della nastaliq, una sua scala ridotta (perciò affilata nel ductus) a ritorno di fiamma cancelleresco (verso il taliq), è la sekasté ‘spezzata/spezzante’, scrittura sintetica che frantuma grafemi, parole e norme grafiche, componendosi a spezzoni di getti di penna omogenei di per sé. La sekaste è la corsivissima: si perfeziona (XVII secolo), entra nel libro (secoli XVIII-XIX), diventa ministeriale, mercantesca, epistolare, quotidiana, ordinaria .

Altre scritture importanti che entrano di straforo, m qualche punto momento luogo del libro persiano, sono: la biharì indiana, specializzata nel corano o suo commento (tafsìr) con il testo arabo al centro e il commento persiano in margine (nashi); la siyaqat ‘scrittura cifrata, da conto’, la riccioluta mercantesca, omologata sulla scala dei numeri (di origine indiana, questi si scrivono da sinistra a destra, come da noi). Inoltre le fantastiche o figurali, banco del virtuosismo calligrafico, combinazioni di falci e ganci in un tracciato serpeggiante che delineano animali, edifici, imbarcazioni ecc.

con il pre-testo di brani coranici o poetici: tàvùs ‘pavone’, larzè ‘tremula’, golzar ‘aiuola’ (corpi delle lettere disseminati di fiori), zolf-e arùs ‘ricciolo da sposa’ (con lettere ovali e code arricciate), hilàli ‘a mezzaluna’, badr al-kamal ‘a lunapiena’ (riempiendo le code), manàsìr ‘da diplomi’ (code torte in un senso o nell’altro, secondo si scriva di elogio, promozione, o biasimo, derogazione), mutannà ‘ambigua, duplice, doppia’: una stessa scritta affrontata e unita sul piano, quindi «visibile» specularmente, a diritto e rovescio in contemporanea; e via disegnando.

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