MUSICA PERSIANA

Il regno dei califfi Omayyadi (661-750) è un periodo d’innovazione musicale in cui la già millenaria cultura della musica persiana comincia a esercitare un’influenza decisiva sulla nascente musica islamica. Con la conquista del regno sassanide numerosi elementi culturali persiani verrano adottati dalle nuove corti dei califfi, come ad esempio le usanze e i costumi delle cerimonie imperiali; d’altra parte invece sarà notevole il peso delle tradizioni persiane di musica strumentale: sappiamo, infatti, che la musica degli arabi nel periodo preislamico era incentrata sul canto e sulla poesia, mentre con la conquista della Persia la musica strumentale cominciò ad essere coltivata anche presso gli arabi, come si può dedurre dall’adozione da parte di questi del BARBÀT, liuto a manico corto sassanide, il quale divenne il liuto ‘uo, o LAÙD nella Spagna dei Mori. Il contributo inoltre parve essere anche quello della diffusione di uno «stile di canto ignoto agli arabi» da parte degli operai persiani, già negli anni della costruzione della ci età di La Mecca.

Ciò che contraddistinse l’epoca del califfato degli Omayyadi fu l’assenza di una tradizione consolidata di musicisti affiliaci alla corte in pianta stabile: gli eventi musicali pare fossero realizzati da musicisti itineranti. Il mutamento di questa situazione avvenne con la dinastia Abbaside (750-1258) e la sua nuova capitale Baghdad, nella cui corte imperiale furono concentraci talentuosi strumentisti, cantanti e cantatrici. La principale fonte d’informazioni su questo periodo è il Kitàb al-aghànì, ovvero il Libro delle canzoni, di Al-Isfahani (897-967), in cui sono riportate numerose notizie biografiche sui più importanti musicisti della corte di Baghdad, i quali nonostante i nomi arabi, pare fossero tutti di origine persiana. Fra questi vi sono le autorevoli figure del maestro Ibrahim al-Mawsili (742-804) e di suo figlio Ishaq al-Mawsili (767-850); soprattutto quest’ultimo rappresenta in modo esemplare la figura del maestro di corte, con i suoi ruoli di compositore, esecutore, poeta e intellettuale, in questo caso esperto di filologia e giurisprudenza. Il suo più grande rivale fu Ibrahim ibn al-Mahdì (779-839), talentuoso cantante, il quale pare aver contribuito ad un’ulteriore innesto di elementi musicali persiani, la cui natura è difficile da ricostruire. Ciò che possiamo dedurre è che già in epoca Abbaside erano presenti due stili differenti di musica di corte, thaqil (“pesante”) e khafif(“leggero”), di cui il secondo maggiormente intriso di elementi persiani, fra cui la sofisticatezza delle linee melodiche e la tendenza all’improvvisazione e all’interpretazione libera delle composizioni.

Nel secolo IX si colloca anche l’operato del celebre musicista Ziryàb (m. 852), anch’egli d’origine persiana, il quale fu discepolo di Ibrahim al-Mawsili a Baghdad. Ziryàb soggiornò nelle corti della Siria e della Tunisia, prima di stabilirsi a Cordoba presso la corte del califfo Omayyade ‘Abd al-Rahrnan II, dove istituì una tradizione musicale che pare essere alla base della musica arabo-andalusa; la sua personalità fu influente non solo nell’ambito musicale ma anche in materia di gusto, costume e cucina. Verso la fine del IX secolo il regno abbaside si avviò ad una frammentazione politica, con l’incremento dell’indipendenza delle province e un conseguente sviluppo delle singole tradizioni di corte ad esse relative: il sapere artistico e musicale accentrato nella corte di Baghdad si diffuse nelle regioni del mondo islamico, ed una parte notevole di questo processo fu dovuta alla florida attività intellettuale e scientifica che si concretizzò in numerose scuole e trattati, redatti inizialmente in lingua araba (VIII e IX secolo), e in lingua persiana e turca nei secoli a seguire.

Abù Yùsof al-Kindì (796-873), il “filosofo degli Arabi”, che soggiornò per quasi tutta la vita a Baghdad nel pieno del fervore scientifico e delle traduzioni dei testi antichi, fu anche il primo maggiore teorico della musica. In egli coesistono due tendenze speculative che nei secoli successivi si troveranno molto spesso divise: una che potremmo definire come improntata ad un razionalismo ed empirismo descrittivo del fenomeno musicale, ed un’altra invece dedita al rilevamento delle relazioni fra la musica e la scienza dei numeri, la cosmologia, i temperamenti del corpo umano.

Per quanto riguarda la prima di queste due tendenze, v’è da dire che al-Kindì fornì un modello speculativo per la discussione teorica su gli intervalli, le scale e i modi musicali, che fu adottato nei secoli successivi da tutti i maggiori teorici: egli descrive le strutture tetracordali facendo riferimento alle posizioni delle dita della mano sinistra sulla tastiera del liuto a manico corto ‘UD; descrive inoltre gli intervalli utilizzando le misure pitagoriche di limma e apotome, che sommati danno il tono intero, ed aggiunge teoricamente al liuto una quinta corda per ottenere un ambito melodico di due ottave, corrispondente al sistema perfetto della teoria musicale greca.

Ritroviamo lo stesso procedimento speculativo nel più eminente teorico della musica nella scoria dell’Islam: il persiano Abù Nasr al-Farabì (872-950), il quale studiò anch’esso a Baghdad la logica, la grammatica, la filosofia, la musica, la matematica e le scienze naturali, acquistando un’autorità intellettuale e spirituale che gli valse l’epiteto di Magister Secundus, ovvero Secondo Aristotele, il cui titolo era Magister Primus. Egli è l’autore del Kitàb al-musìqi al-kabìr, o Grande libro della musica, una voluminosa opera che consiste in un’introduzione e tre libri, ognuno costituito da due sezioni, in cui vengono affrontate con accuratezza di metodo i vari aspetti del fare musicale in relazione a considerazioni filosofiche sulla natura dell’uomo, le origini della musica, la fisica del suono, le caratteristiche degli intervalli musicali, dei tetracordi, delle divisioni d’ottava, delle strutture e dei cicli ritmici, della composizione e dell’esecuzione musicale. Egli riprende poi il modello di al-Kindì con il quale chiarisce le questioni riguardami le strutture intervallari attraverso la descrizione della tastatura degli strumenti a corde, che in questo caso sono oltre all’UD, anche il TUNBÙR (TUNBÙR) di Baghdad e il TUNBÙR del Khorasan. La descrizione effettuata da Farabì è decisamente più complessa di quella di al-Kindì, comprendendo posizioni principali e supplementari; inoltre in esso appare anche il celebre medio di Zalzal; ovvero l’intervallo di terza neutra che pare fu introdotto appunto da Zalzal, maestro di Ishaq al-Mawsilì.

Nell’introduzione al secondo libro, denominato Libro degli strumenti, Farabì espone con chiarezza l’utilità di una dissertazione di tipo organologico all’interno di un trattato sulla musica: dopo aver passato in rassegna, nell’Introduzione e nel primo libro o Libro degli elementi, i «principi e gli elementi primi» della scienza musicale, con una trattazione specifica sugli strumenti dell’epoca l’autore vuole effettuare un “controllo sperimentale” di questi principi, renderne esplicite, insomma, le conseguenze, le necessità e i risultati delle loro applicazioni pratiche; in questo modo il lettore che affronterà lo studio dell’opera «si renderà conto che la teoria non è un semplice affare di nomi, ma è ciò che si trova confermato dalle testimonianze delle sensazioni uditive che gli sono familiari». Illustrissimo successore di Farabì fu Abù Alì Ibn Sìnà (980-1037), conosciuto in Europa come Avicenna, anch’egli persiano. Ricordiamo fuggevolmente che l’opera di quest’uomo, che rivestì cariche di vizir presso numerose corti nel territorio dell’Iran e che ci ha lasciato una bibliografia di 242 titoli, è stata per secoli, in Occidente e in Oriente, alla base degli studi di medicina. Le sue trattazioni musicali furono inevitabilmente più dense e ridotte rispetto a quelle di Farabì, ma sicuramente non meno valide; ad egli dobbiamo anche l’introduzione di una terminologia in lingua persiana, apparsa per la prima volta nel capitolo sulla musica all’interno della sezione sulle scienze matematiche nell’enciclopedia Kitàb al-shifà, o Libro della Guarigione. Questi termini persiani sono i nomi dei dodici modi primari descritti da Ibn Sìnà, i quali sono utilizzati ancora al giorno d’oggi nell’attuale tradizione classica persiana, come nomi delle melodie-tipo o dei modi secondari detti gushe-ha.

I persiani Farabì e Ibn Sìnà non furono partecipi della seconda tendenza speculativa a cui abbiamo accennato in precedenza, ovvero quella riguardante le relazioni numeriche e cosmologiche tra i suoni e il mondo dei fenomeni naturali. Oltre al-Kindì, il quale dedicò nella sua opera un notevole interesse a questioni del genere, vi è da citare l’enciclopedia dei Fratelli di Basra Ikhwàn al-Safa: ovvero «Fratelli della Purezza e Amici della Fedeltà», risalente al X secolo, i quali furono una società segreta di pensiero affiliata al movimento ismailita. Nelle loro 51 Rasà’il, o epistole, vi è innanzitutto una difesa della teoria platonico-pitagorica della musica delle sfere, la quale veniva totalmente negata da un autore come Farabì, e in seguito una serie di dissertazioni su corrispondenze numeriche, effetti terapeutici della musica, e correlazioni fra le corde dell”UD e gli umori del corpo.

Nei secoli successivi, nell’epoca con cui prese inizio la disgregazione dell’impero abbaside e l’avanzata dei conquistatori turchi e mongoli, un’eco delle dottrine cosmologiche riguardanti l’«armonia delle sfere» giunse nell’opera dello shayk al-Isbràq Shihàboddìn Yahyà Sohrawardì (115 5-1191), originario dell’Iran nord-occidentale, il cui pensiero è importante per la comprensione del fenomeno dell’esperienza mistica, indissolubilmente legato alla musica nella storia della civiltà iraniana, oltre che alla poesia, alla danza e ali’ arte visiva, tutte attività che si possono definire come «mezzi d’espressione dell’indicibile». Secondo l’opera di Sohrawardi, il piano attraverso cui si realizza la comprensione della realtà sovrasensibile è il mundus imaginaLis o àlam al-mithàl , piano intermedio fra la realtà materiale e la realtà spirituale, solo al cui interno è possibile l’audizione della vera musica delle sfere. Sohrawardì enunciò la sua dottrina come una «restaurazione della sapienza dell’antica Persia», indicando come suoi predecessori le figure eminenti di Hermes, Platone e Zarathustra; quest’ultima associazione fra il filosofo greco e il riformatore del culto di Ahura Mazda fu curiosamente perseguita alcuni secoli dopo anche in Europa, da parte del filosofo bizantino Gemisto Pletone, all’alba del Rinascimento.

A circa due secoli di distanza dall’opera di Avicenna si colloca la nascita della scuola di teoria musicale detta, dagli studiosi occidentali, «sistermatista», poiché dedita alla descrizione di «un inventario sistematico dei modi in uso»:”: il cui fondatore è il persiano Safì al-Dìn al-Urrnawì (m. 1293). Nel suo Kitàb aL-adwàrvi è ripresa l’analisi descrittiva delle divisioni sulla tastiera del TUNBÙR del Khorasan già effettuata secoli prima da Farabì; la novità sta nel sistema con cui l’autore suddivide progressivamente l’ottava in 17 parti: questa è formata da due tetracordi separati da un tono intero; i tetracordi sono a loro volta formati da 2 toni interi più 1 Limma; il tono intero è formato da 2 Limma più 1 comma. Da quest’analisi Urmawì deduce un sistema di 84 possibili scale e 18 modi musicali, divisi a loro volta in 12 shudùd e 6 awàzàt. Nel libro vi è poi una descrizione dei cicli ritmici ed una serie di frammenti di notazione, caratteristica decisamente originale per l’epoca.

Con l’invasione mongola del XIII secolo e il sacco di Baghdad nel 1258, si può considerare conclusa l’epoca del califfato abbaside: da questo momento in poi il centro della vita musicale sembra spostarsi verso l’Iran e l’Asia centrale, in città quali Tabriz, Herat, Isfahan, Samarcanda. Lopera di Safiuddìn ottenne una risonanza notevole in tutto il mondo islamico orientale e con il suo discepolo Qutb al-Dìn Shirazi e gli altri successori della scuola sisternatista si diede inizio ad una florida letteratura di teoria musicale in lingua persiana, il cui ultimo più autorevole rappresentante fu il compositore ‘Abd al-Qàdir al-Maràghì (m. 1435), vissuto durante il regno di Tamerlano. Linfluenza di Urmawì, Shirazi, Maràghì e dei sistematisti in genere sulla musica classica persiana, turca e araba ebbe una portata tale da permettere agli storici di ipotizzare un’alta omogeneità fra le pratiche musicali delle corti di Isfahan, Baghdad, Damasco, Mardin ed Erzincan, nei secoli che vanno dal 1200 al 1500. Fu verso la metà del XVI secolo che questa produzione di opere teoriche cessò del tutto, e che le tradizioni della musica turco-ottomana, araba e persiana intrapresero quel processo di differenziazione, il cui apice fu raggiunto nel secolo XVIII, con la caduta in Iran della dinastia Safavide.

Durante il regno di Shah Abbàs I (1587-1528), presso la corte della nuova capitale Isfahàn, la vita musicale e artistica raggiunse probabilmente il livello più alto, come ben documentano le numerose raffigurazioni miniaturiali e artistiche rappresentanti vari aspetti della vita musicale. Vi erano presso la corte quattro gruppi di musicisti: le donne, gli uomini, gli armeni e i georgiani, più alcuni gruppi di eunuchi, com’era in usanza presso le corti europee della stessa epoca. I compositori più importanti che la storia ricorda furono Shàh Moràd, Mohammad Qazvini, Aqà Mo’men e il georgiano Amir Khàn Gorji. In questo periodo riprese anche una fiorente produzione di trattatistica musicale, dedita però ad un’attività puramente descrittiva della pratica, oppure ad una speculazione simbolica e cosmologica; non v’è più traccia ormai dell’atteggiamento analitico che contraddistinse i primi grandi teorici e la scuola sistematista. Nel discutere della pratica musicale e dell’interpretazione, questi trattati suggerivano la concatenazione coerente dei brani o delle entità modali, in modo tale da formare delle suites, in cui si cominciava e si terminava con lo stesso modo musicale, proprio come nella pratica dei dastgah-ha, che si andrà formando gradualmente dall’inizio del XIX secolo per culminare nella creazione del radif, da parte dei maestri della corte Qajar.

Durante il lungo periodo di reggenza di Nasereddìn Shah (1848-1896) la musica riguadagnò un notevole favore: si ricreò un’élite di musicisti di corte, i quali sedevano al cospetto del re e lo accompagnavano in ogni suo spostamento come dei familiari. Fra questi vi furono Mohammad Sadeq Khan, che eccelleva nell’arte della cetra su tavola SANTUR, e Alì Akbàr Farahànì (m. 1857), maestro del liuto a manico lungo TÀR, la cui fama giunse in Europa già intorno al 1859, grazie ai racconti di viaggio del conte di Gobineau, diplomatico francese che ebbe l’occasione di ascoltare la sua musica durante la sua permanenza presso la corte Qajar. In questo periodo prende forma il tipo di ensembleche ancora oggi è rappresentativo della musica classica persiana; esso è costituito in linea di massima dalla voce e uno o due strumenti solisti, oppure da due o tre strumenti solisti, con l’accompagnamento del tamburo a calice ZARB o del tamburo a cornice DUF. Gli strumenti solisti in uso sono la viella KAMANTCHÈ, la cetra su tavola SANTUR, il flauto NEY e i liuti a manico lungo TÀR e SETÀR, quest’ultimo più adatto ad essere suonato da solo, o assieme alla voce e al flauto NEY, che negli ensembles, a causa del suo caratteristico timbro poco voluminoso.

Da Alì Akbàr Farahànì nacque anche la principale scuola dello stile tradizionale della musica classica persiana: morto prematuramente nel 1857, il suo repertorio ed i tratti del suo stile furono trasmessi ai due figli Mirza Abdollah (m. 1918) e Hoseyn Qoli (m. 1915), per il tramite del loro zio Aqà Gholàm Hoseyn. Questi due divennero, agli inizi del secolo XX, le maggiori autorità del repertorio canonico: Mirza Abdollah fu colui che mise a punto ed organizzò sistematicamente un repertorio-modello per i liuti TÀR e SETÀR denominato radif, adattato in seguito anche agli altri strumenti, il quale è tuttora alla base dell’insegnamento e della performance musicale.

Nella sua macro-forma il radif è suddiviso in 7 dastgah-ha e 5 avaz-ha. Definibili come dei complessi modali, ogni dastgah-ha o avaz-ha è contraddistinto da uno o più modi o mayè, i quali tecnicamente si differenziano fra loro per via dei tetracordi o dang-ha che ne compongono le strutture scalari, e per una gerarchia interna delle altezze che stabilisce di volta in volta le funzioni di shahed o nota principale (messa maggiormente in risalto dalla linea melodica); isto nota d’arresto della melodia; aghàz o nota iniziale; motaghayyer o nota variabile (che può presentarsi alterata di un quarto di tono); e infine la funzione di finale, nota con cui si concludono le frasi melodiche.

Il più importante dastgah è indubbiamente dastgah-e shur, dal quale derivano quattro avaz-ha: abu’atà, bayat-e tork, afsharì e dashtì; seguono poi dastgah-e mahur, dastgah­e chahargah, dastgah-e homayun, il quale genera l’ avaz-e bayat-e isfahan; poi dastgah­e rastpanjgah, dastgah-e navà e infine dastgah-e segah. Vi è inoltre un sesto avaz, denominato kord-e bayat, che viene solitamente inglobato in dastgah-e shur.

La forma interna di ciascuno dei 12 complessi modali è data da una sequenza di gushe­ha; queste presentano una varietà formale notevole, che non permette una definizione univoca del concetto di gushe ma obbliga a stabilire almeno quattro principali tipologie:

• complesso modale autonomo (shah gusheh), avente un sistema scalare e una gerarchia delle altezze autonomi rispetto al dastgah in cui essa si presenta, e una serie di sezioni interne di modulazione e di gushe-ha secondarie; ad esempio: Mokhalef Hesar, Delkash, Shekaste, ‘Araq, Ràk-,
• complesso modale semi-autonomo, con la stessa indipendenza delle caratteristiche modali di una shah gusheh, ma privo di sezioni interne secondarie e modulanti;
• composizioni melodiche, le quali si possono ritrovare anche trasposte in vari dastgah-ha;
• motivi ritmici o melodici, privi di un’associazione con una particolare struttura

intervallare, quindi trasferibili da un dastgah all’altro.

Un’ulteriore distinzione formale nell’insieme delle gushe-hava operata fra le categorie di daramad, che vuol dire “introduzione” ed appunto una presentazione delle caratteristiche modali del dastgah o dell’avaz in questione; naghme o “melodia”, quindi una breve composizione in ritmo libero; chaharmezrab il cui nome fa riferimento ad un pattern motorio costituito da quattro colpi di plettro ed è appunto una composizione caratterizzata dalla ripetizione con variazioni di una sequenza ritmico-motoria; reng, che vuol dire “danza” ed è un tipo di composizione misurata basata su ritmi di danza molto antichi; forud, o una specie di movimento cadenzale, il quale di solito conclude una sezione modulante per riportare alla struttura modale iniziale del dastgah. Dall’esame delle gushe-ha risulta una netta prevalenza del ritmo libero, non-misurato, sul ritmo misurato: per comprendere il senso di questa particolarità bisogna considerare che l’articolazione metrica è molto vicina a quella della poesia classica persiana, quindi di tipo quantitativo, ovvero suddivisa in successioni di accenti lunghi e brevi. L’incedere ritmico della musica classica persiana viene descritto spesso come simile ad una “parola articolata”; nel radif per canto, inoltre, le gushe-ha vengono eseguite su delle liriche di poeti classici come Haféz, Rumi, Omàr Khayyàm e Sadì, le quali sono composte nei metri del ghazal, del dobeytt e del masnavì.

vi sono innanzitutto vari modi di ornare la melodia, che consentono di dare maggior risalto ad alcuni elementi melodici piuttosto che ad altri; poi ci si può dilungare separando frammenti motivici di gushe e ripetendoli uguali o variati; è possibile prolungare alcuni movimenti melodici con melismi e trasposizioni oppure inserire delle “composizioni estemporanee” fra una gushe e l’altra. Queste varie modalità d’esecuzione del radif dipendono principalmente dal livello del musicista: nella visione musicale tradizionale si concepisce una gradualità secondo cui il musicista dovrebbe nei primi anni semplicemente imparare ad eseguire perfettamente il radif del maestro senza variazioni, una volta appreso questo radif egli può, man mano che acquisisce esperienza, esplorarne le possibilità interpretative variandone alcuni elementi.

L’ultimo stadio si ha quando il musicista ha interiorizzato del tutto lo stile e ha compreso a fondo il senso dei vari sistemi modali: a quel punto egli può creare ex-novo, sia nell’improvvisazione, che nella composizione di nuove gushe-ha.

Il meccanismo sopra descritto ci porta inevitabilmente a trattare di un importante aspetto della cultura persiana. La modalità tradizionale dell’insegnamento della musica in Iran – che si tratti di musica classica o di musica legata a tradizioni “regionali” come quella dei bardi, o di attività musicali semi-professionali come quella dei cantori dello zurkhanè consiste nel trascorrere un lungo periodo della propria vita, che di solito consiste in 12 anni, a stretto contatto con un maestro, ostàd o morshèd, diventando quindi, più che un suo allievo, un suo discepolo

 È stato più volte messo in evidenza come questo metodo sia identico nel contesto del misticismo: il giovane che vuole essere iniziato alla saggezza spirituale non ha altro modo che essere accolto nella casa di un darwìsh (derviscio), per conseguire il suo scopo.

L’insegnamento spirituale è l’insegnamento musicale mostrano un’ulteriore affinità: in essi sono totalmente assenti tracce di concettualizzazioni, che si concretizzerebbero in spiegazioni e chiarimenti verbali da maestro a discepolo; l’apprendimento avviene rigorosamente per imitazione e questa non si limita, nel caso del musicista, all’imitazione musicale, ma va estesa anche al modus vivendi del maestro. Il discepolo deve quotidianamente, tramite l’osservazione, impregnarsi delle abitudini, dello stile, della visione della vita del maestro.

Nello specifico dell’insegnamento musicale, si può parlare di lezioni che consistono inizialmente nel mostrare al discepolo l’esecuzione di brevi brani melodici. Il discepolo si sforza di riprodurre esattamente ciò che vede e ascolta, acquistando così gradualmente la capacità d’esecuzione dei principali “gesti” musicali (quindi delle varie tecniche d’ornamentazione).

Raggiunta una discreta padronanza tecnica, il maestro comincia con il mostrare al discepolo le prime gushe-ha del radif, magari in una versione semplificata. Per apprendere un’inrero radif, si stimano necessari all’incirca 10 o 12 anni: durante questo lungo lasso di tempo, e attraverso questo metodo rigoroso, si sviluppano nel discepolo delle qualità indispensabili fra cui la memoria, la capacità d’imitazione immediata, le facoltà dell’attenzione e della concentrazione acuita, e, come afferma Safvate, un prezioso senso dei dettagli. Tutte qualità fondamentali la cui funzione è ambivalente: da un lato sono necessarie nella performance, poiché sono alla base non solo dell’improvvisazione ma anche dell’accompagnamento estemporaneo del canto, basato appunto su di un gioco imitativo di anticipazioni e ritardi; d’altro lato rappresentano i mezzi e le facoltà più adatte a cogliere ed esprimere al meglio il senso ed i significati più profondi, d’ordine spirituale, che questa musica possiede, ma che difficilmente mostra esteriormente.

Questo metodo d’insegnamento pare essere in disuso, anche per via dei cambiamenti socio-culturali che nel secolo scorso hanno permesso la nascita in Iran di scuole di musica come il Conservatorio di Teheran, improntate ad una didattica di stampo occidentale, la quale si serve parzialmente di notazioni, spiegazioni tecniche, registrazioni e quant’altro ancora.

Nel caso del radif e di altre tradizioni persiane quali il repertorio sacro per liuto TANBÙR della confraternita kurda Ahl-e Haqq, il repertorio strumentale per il DOTAR del Khorasan, o quello della viella monossile QEYCHAK dei Baluchi, l’ornamentazione raggiunge un livello tale di densità da generare un vero e proprio sdoppiamento del livello percettivo della melodia. Alcune note vengono poste in primo piano, mentre sullo sfondo vi sono costantemente dei suoni di minor volume, delle note allusive, dei tremolii. Apparendo forse come una semplice tecnica di “abbellimento”, in realta l’ornamentazione è il risultato di un particolare approccio che il musicista applica sullo strumento; essa è il veicolo espressivo dello hàl; termine caro alla mistica dell’Islam, un particolare stato di coscienza quindi le cui modalità e affinità con l’estasi o con l’ en-stasi  richiederebbero studi molto approfonditi.

Secondo alcuni studiosi persiani della tradizione della musica persiana, quali Darioush Safvate e Seyyed Hosein Nasr, lo hàl è ciò che dà il senso all’esecuzione musicale e la rende pregna di valore spirituale, oltre che etico ed estetico. L’espressione dello hàl, quindi, si realizza principalmente attraverso l’ornamentazione; essa infatti costringe il musicista ad un particolare tipo di concentrazione, in cui lo sforzo richiesto non è tanto d’ordine fisiologico quanto d’ordine mentale, e la cui riuscita è accompagnata non da una fatica, ma da una sensazione di piacere nel far suonare lo strumento. Seguendo la definizione esposta da Jean During, questo sforzo può essere descritto come finalizzato alla realizzazione musicale di un principio d’ordine spirituale, cioè l’unità tra tre livelli ontologici: l’agente, l’atto ed il mezzo, i quali hanno una corrispondenza d’ordine sensibile nel musicista, nel gesto musicale e nello strumento.

Alcuni nomi di queste melodie sono sopravvissuti nell’epica classica persiana, ad esempio Aràyishn ì khvarshèdh (“la bellezza del sole”), Takht-i Ardechìr (“il trono di Ardashir”), Nauroùz-i bozorg (“la grande Primavera”), Ròchan­tchèràgh (“il lampo brillante”), Haft guendj (“i sette tesori”). Non sono rimaste tracce invece delle liriche, scritte in lingua pahlavi. È nei secoli tra il XII e il XIV che la Persia ha visto il fiorire di una tradizione poetica classica d’ispirazione mistica, ad opera di Jalaloddìn Rùmi, Sadì, Hafèz e Omàr Khayyàm, la cui eco ha oltrepassato decisamente i confini dell’Iran. Questa poesia, che si serve del metro classico del ghazal è tuttora centrale nelle esecuzioni del radif per canto, così come nella forma più moderna di concerto classico “da sala” che adotta ampi organici strumentali. Essa pare inoltre possedere un legame strutturale molto profondo con il radif, i cui fraseggi in ritmo libero sono paragonabili ad un “parola arricolarata.

Nelle esecuzioni del radif vocale e nelle suites da concerto il cantante associa ai versi del poema scelto una particolare gushe-ha; questi versi cantati vengono poi alternati a parti di vocalizzo o di solo strumentale, o a brani in ritmo misurato. Durante il canto dei distici del ghazal; lo strumento che accompagna segue la voce all’unisono, ma con dei giochi d’anticipazioni, ritardi e sovrapposizioni, che richiedono da entrambe le parti una notevole padronanza dei modelli del radif, oltre che una certa sintonia emozionale.

La poesia è anche al centro della vita musicale al di fuori delle grandi città, soprattutto grazie alle figure professionali e semi-professionali dei bardi o cantastorie. Costoro sono eredi di un retaggio molto arcaico che affonda le radici sia nella Persia antica, che nel passato più remoto di tutte le popolazioni di origine turco-tatara che dai primi secoli dello scorso millennio hanno occupato i territori settentrionali dell’Iran. Le performance dei bardi consistono in lunghe narrazioni effettuate con l’alternanza di poemi cantati, accompagnati da musica strumentale, e sezioni di prosa parlata. Il bardo utilizza per ogni momento della narrazione melodie dall’ethos differente; nel Khorasan, ad esempio si distinguono un carattere allegro (shàd), di danza (sùznàk), marziale (razmì) e malinconico (hoznavar).

Tutte le grandi etnie che compongono l’attuale Iran possiedono una propria tradizione di cantastorie, a partire dalle etnie di lingua persiana: il bardo persiano o naqqàl possiede un vasto repertorio di tradizione orale di poesia epica elaborato sulle fonti tradizionali letterarie, di cui la principale è lo Shahnameh di Firdousi. Questo poema raccoglie in forma epica l’eredità culturale e spirituale di una civiltà antichissima: in esso gli avvenimenti storici dell’epoca preislamica si fondono con il mito arcaico, di matrice zoroastriana e indoeuropea. Origini altrettanto remote sono quelle del patrimonio epico dell’etnie di lingua turca, che nell’Iran sono rappresentate dagli Azeri e dai Turkmeni, stanziati in prevalenza rispettivamente nel nord-ovest e nel nord-est. Il bardo azero, o ashìq, vanta una tradizione maggiormente urbanizzata, presente, oltre che in Azerbaijan, anche nella Turchia orientale; le fonti storiche citano questa figura a partire dal X.V secolo, durante il periodo safavide essa godeva di un notevole prestigio sociale, anche all’interno della corte. Il repertorio dell’ ashìq è composto dai dastanlar, poemi epici tradizionali i cui temi sono comuni a tutte le popolazioni di lingua turca dell’Asia centrale. Questi sono eseguiti dall’ashìq accompagnandosi con il liuto a manico lungo SÀZ, in alcune zone con una piccola ensemble costituita dal doppio oboe BALABAN e dal tamburo a cornice QAVAL ( o DAYERÈ).

Come in tutte le tradizioni musicali del mondo orientale, anche il bardo apprende la propria arte attraverso un lungo periodo di vita a stretto contatto con un maestro. Oltre a coloro che provengono da una tradizione familiare, ve ne sono molti che si dedicano all’apprendimento per una scelta personale, mentre nelle etnie di lingua turca vi è una tradizione secondo cui alcuni ashìq, apprendono la loro arte attraverso il sogno di maestri o antenati. Specialmente presso popoli nomadi islamizzati come i Turkmeni questo elemento è parte di una coscienza culturale che attribuisce al bardo, o bagshy, l’eredità spirituale dell’antica figura dello sciamano.

Nel Khorasan iraniano esiste un’importante tradizione di bardi, denominati bakhshi, che presenta molte affinità tra la musica persiana con la tradizione propriamente turkmena, fra cui l’utilizzo del liuto a manico lungo DUTÀR come accompagnamento al canto. Questa tradizione ha conosciuto anch’essa un lungo periodo di mecenatismo nelle grandi corti del Khorasan; attualmente è legata ai mestieri del barbiere e del medico, e ad altre attività musicali come il dramma liturgico sci’ita ta’zye, e il canto responsoriale del nowheh. Il repertorio proprio invece del bakhshi si serve delle tre principali lingue del Khorasan, ovvero il persiano, il kurdo e il turkmeno, e comprende i tipici dastan, i cui argomenti principali sono l’amore, l’esperienza spirituale e l’eroismo, più altri poemi di varia provenienza, fra cui lo Shahnameh. Il bakhshi dispone di un centinaio di ahàng (melodie) memorizzate oralmente, mentre utilizza come supporto per la memoria e lo studio un libro personale, o ketabche, su cui sono annotate le liriche, a volte ricopiate da alcuni libri in circolazione contenenti dastan antichi, alcuni provenienti dall’Azerbaijan, da Bukhara e da Khiva, altri di origini sconosciute.

Nei territori più a sud del Khorasan troviamo un’altra raffinata e antica tradizione epica della musica persiana: quella dello sha’er del Baluchistan. Tradizionalmente questi esercitava la propria arte alle corti dei sovrani, o nei matrimoni, con l’accompagnamento della viella monossile SORUD (o QEYCHAK), e il liuto drone a manico lungo TANBURAG. I temi della narrativa, o sheyr, sono sempre di argomento eroico, interludiati da dinamiche vicende amorose; un maestro riconosciuto di quest’arte consegue il titolo di pahlavàn, o “cantore dell’eroismo”.

Un’ultima tradizione che merita di essere citata è quella dei bardi kurdi o beytbij, la quale si distingue dalle altre per l’assenza di un accompagnamento strumentale al canto dell’epica, detto sher, o beyt. Essi seguono un codice di condotta che non permette loro di partecipare o di cantare in canzoni per la danza; vi sono poi numerosi casi in cui gli uomini che eseguono questi canti non fanno della loro arte una “professione”, rifiutando qualsiasi tipo di remunerazione.