Nowruz (Capodanno)

Nowruz, il giorno della speranza

Nowruz, “nuovo giorno” , capodanno Iraniano (A causa della diversità di pronuncia fra le varie lingue e i vari dialetti –  Norouz / Nawruz / Norooz / Norouz) nella tradizione, nella cultura e nella mentalità persiana, da quattromila anni il giorno di Nowruz rappresenta la vittoria sull’inverno, e su tutto ciò di cui l’inverno può essere il simbolo: una vittoria che nessuna circostanza storica è mai riuscita ad oscurare nel cuore degli Iraniani.
Nowruz è il Capodanno persiano, che cade il primo giorno del mese di farvardin, in una data corrispondente al 21 marzo del calendario cristiano (la data si mantiene fissa grazie all’introduzione dell’anno bisestile nel calendario solare persiano), giorno considerato in Occidente come l’inizio della primavera perché segnato dall’equinozio ascendente.

La leggenda del Nowruz

Grazie allo studio del Sanscrito e alla profonda conoscenza della cultura della Persia e dell’India del suo tempo, Birouni offre, a proposito del Nowruz, una grande quantità di informazioni, soprattutto nei libri Asar Al-Bagiah e Al-Qanun al-Masoudi (qui, in particolare, egli spiega il Nowruz dal punto di vista delle tecniche di calcolo dei calendari).
Da Birouni apprendiamo che nel Nowruz si identifica il giorno in cui l’Angelo della vittoria incoraggiò lo spirito umano a creare cose sempre nuove, e che dunque la ricorrenza esprime una grande ricchezza di benedizioni: in questa notte racconta Birouni citando Sayd Ibn Fazi dal monte Damavand, l’altissima cima che domina Teheran, si sprigionano scintille, e vi è chi giura di aver visto una fiamma alzarsi dal pinnacolo del ghiacciaio.

Secondo altri, pure citati nei medesimi libri, il Nowruz deve essere ricollegato al re Jamshid, figlio di Tahmuress, che nel giorno stesso in cui Sali’ al trono per governare quasi tutto il mondo (in un’epoca precedente l’impero degli antichi Medi) varò alcune riforme religiose: il popolo, gradendo tali riforme, trasformò la ricorrenza di quel giorno, che aveva rinnovato la vita della comunità, in una festa, la festa di NowRuz.

La ricorrenza venne poi osservata anche dagli antichi re, e i festeggiamenti furono organizzati secondo una speciale gerarchia: il primo giorno era detto appartenere ai monarchi, il secondo agli aristocratici, il terzo ai funzionari del re, il quarto ai servitori di corte, il quinto agli abitanti delle città e il sesto ai contadini.

Presso i Sassanidi (III-VII secolo d.C.), però, come ricorda Birouni, il primo giorno di NowRuz il re chiamava a raccolta il popolo, invitandolo alla fratellanza; il secondo egli si occupava dei problemi della popolazione rurale; il terzo giorno apparteneva al clero e ai soldati, il quarto alla famiglia reale, il quinto ai servi del re, che proprio allora venivano gratificati o promossi di rango, e il sesto al monarca in persona.

Altre tradizioni aggiunsero elementi ulteriori alle gesta di Jamshid, narrando che il grande re si era costruito un carro a bordo del quale attraversava i cieli; una volta viaggiò cosi’ dal Damavand sino a Babol, sulla costa del Mar Caspio, e tutta la gente si raccolse per vederlo passare: il NowRuz costituirebbe tra l’altro anche la festosa celebrazione annuale di quel passaggio.

E vi è chi racconta che nel suo peregrinare celeste Jamshid si recava a volte anche nell’Azarbayjan, dove si fermava, assidendosi su un trono d’oro che la popolazione locale trasportava sulle spalle: il NowRuz sarebbe dunque la ricorrenza del giorno in cui, grazie alla presenza di Jamshid, il trono sfavillava davanti al sole.

La figura di Jamshid compare in molte delle leggende relative al NowRuz. Birouni, citando un sacerdote zoroastriano, informa che la canna da zucchero fu scoperta in Iran nel giorno di NowRuz, quando Jamshid assaggiò un poco della linfa secreta dal suo fusto: la trovò dolce, e ordinò di lavorarla sino a produrne zucchero. Lo zucchero divenne cosi un popolare bene di scambio, e da quel tempo si usa confezionare dolcetti ed offrirli per il Capodanno.

Al concetto di dolcezza si collega anche la credenza popolare secondo cui, se ci si sveglia la mattina del NowRuz, e in silenzio si assaggia un po’ di miele prendendolo con tre dita e si accende una candela, si verrà preservati dalle malattie.

Birouni cita inoltre Ibn Abbas per introdurre una delle tradizioni che illustrano il fondersi della tradizione iranico zoroastriana del NowRuz con l’Islam: un giorno qualcuno offerse al Profeta Mohammad (S) un dolce su un piattino di rame, ed il Profeta (S) chiese spiegazioni. Gli fu riposto che quel giorno era NowRuz. Il Profeta (S) domandò che cosa fosse NowRuz. La grande festa degli Iraniani, gli fu detto. “Io so ribattè il Profeta (S) che la giornata di oggi ricorda il momento in cui l’Onnipotente resusciti’ Askareh.” “Ma che cos’è Askareh” gli domandarono a loro volta i suoi ospiti.
E il Profeta (S) spiegò che un tempo migliaia di persone avevano lasciato la loro terra per paura della morte e si erano recate nel deserto; ma proprio laggiù Dio aveva ordinato che morissero, ed erano morte tutte sull’istante. Subito però l’Onnipotente, impietositosi, aveva ordinato alle nuvole di versare acqua sui loro corpi, perché tornassero in vita, e tutta quella gente era resuscitata (probabilmente da questo deriva l’usanza di spruzzare l’acqua il giorno di Capodanno).

Terminata la spiegazione, il Profeta (S) dell’Islam divise quel dolce fra tutti i presenti (da qui l’abitudine di offrire doni per NowRuz) e disse: “Vorrei che ogni giorno fosse NowRuz”.

Secondo il sesto Imam degli Shi’iti, Jafar ibn Muhammad as-Sadiq (A), NowRuz fu il giorno in cui Dio strinse un patto con gli uomini a Lui fedeli, i quali promisero di non avere mai altro Dio che Dio (ovvero accettarono il monoteismo) e di credere nei suoi Profeti, nei suoi comandamenti e negli Imam (dello Shi’ismo); fu inoltre il giorno in cui l’arca del Profeta Noè toccò finalmente il monte Ararat dopo il diluvio universale; ed anche il giorno in cui il Profeta Abramo distrusse gli idoli dei pagani.

L’Imam Jafar (A) si ricollega al racconto di Askareh quando aggiunge che il miracolo della resurrezione di migliaia di Figli di Israele al comando di Allah, cosi com’è rivelato nella Sura “al-Baqara”, versetto 243, del Sacro Corano, si verificò proprio nel giorno di NowRuz: una pestilenza aveva ucciso molti in una città della Siria, perché Dio aveva voluto punire la disobbedienza della popolazione ai locali leader religiosi; alcune decine di migliaia di ribelli avevano allora lasciato la città ritenendosi in grado di opporsi con successo al volere divino; e nel deserto Dio li aveva fatti morire della stessa piaga cui avevano creduto di poter sfuggire.

Anni dopo il Profeta Ezechiele, mosso a pietà alla vista dei loro cadaveri, aveva pregato Dio perché li riportasse in vita, ed il giorno di NowRuz era stato esaudito.

Secondo un’altra leggenda, il re Salomone, figlio di David, aveva perduto il suo anello, e con esso aveva perduto anche il regno. Ma il giorno di NowRuz egli ritrovò l’anello, e tutti gli uccelli gli si raccolsero attorno. Allora Salomone ordinò al vento di trasportarlo verso una nuova destinazione. Ma l’upupa lo fermò, per raccontargli di avere fatto il nido su un albero lungo la strada e di avervi deposto un uovo: “Ti prego, o re aggiunse non di struggere il mio nido”. E il re, per non distruggere quel nido, cambi’ strada. Per ringraziarlo, l’upupa gli spruzzò un po’ d’acqua con il becco e gli donò una cavalletta e forse si può spiegare anche cosi l’abitudine di spruzzare ritualmente qualche goccia d’acqua e soprattutto distribuire piccoli doni nel giorno di NowRuz.

Alcuni ricercatori iraniani ritengono che il giorno di “Ghadir Khom”, nel decimo anno dall’Egira, quando il Profeta (S) nominò il genero Ali (A) proprio successore e lo presentò come tale ai seguaci (egli sarebbe divenuto infatti il primo Imam degli Shi’iti), cadesse proprio nel giorno di NowRuz, il ventinovesimo giorno del mese dei Pesci di un anno bisestile.

Che il NowRuz sia passato dal Mazdeismo all’Islam come speciale retaggio culturale è testimoniato da tradizioni secondo cui gli Zoroastriani si recarono a rendere omaggio all’Imam Ali (A) portandogli in dono vasi colmi di zucchero; egli distribui’ lo zucchero fra i compagni, e accettò i vasi in pagamento delle tasse dovutegli dai seguaci di Zarathustra.

Nella tradizione iranica il primo uomo, e primo mitico re dell’Iran, si chiama Kiumars, come testimonia il poema di Ferdowsi Shahnameh (“Il libro dei Re”), che indica NowRuz come il giorno della creazione di Kiumars. Nella Persia islamica, Kiumars venne poi identificato con Adamo (il primo dei Profeti venerati dall’Islam), e anche sulla base delle affermazioni dell’Imam Jafar (A), NowRuz è ritenuto il giorno in cui appunto Adamo fu creato.

Riguardo alle origini del NowRuz esistono anche teorie diverse da quelle che esposte sin qui (sebbene non contrastanti), elaborate da vari studiosi: per esempio, secondo l’iranologo danese Kristiansen questa festività sarebbe il retaggio della festa babilonese di Zadmuk.

Tra le leggende più popolari, entrate ormai a far parte della favolistica persiana, è il ritorno di “Zio Anno Nuovo”: ogni anno, il primo giorno di primavera, Zio Anno Nuovo indossa il cappello di feltro, si avvolge nella sciarpa e scende in città, appoggiandosi al bastone: visiterà ogni casa della Persia, portando il nuovo anno a tutta la gente. Presso la porta della città vi è uno dei giardini più belli della Persia, coperto di fiori, soprattutto rose, che sbocciano vivide nel giorno d’inizio della primavera.

Proprietaria del giardino è una simpatica vecchietta. Ella non ha mai visto Zio Anno Nuovo, ma ogni anno, il primo giorno di primavera, lo attende ansiosa nella speranza di incontrarlo: si alza prima dell’alba e si prepara a riceverlo, pulendo a fondo la casa, stendendo un tappeto di seta sul pavimento della veranda, innaffiando con cura i fiori specialmente le rose, le preferite di Zio Anno Nuovo. Porta un po’ di mangime ai pesci rossi nell’acqua fresca della vasca in giardino, si accerta che la fontanella nel centro diffonda spruzzi in abbondanza, e davanti all’ingresso depone una bacinella d’acqua dove galleggiano petali di rose. Indossa l’abito migliore, di seta finemente ricamata, annoda intorno ai capelli uno scialle color d’oro, accende il fuoco nel camino, nella veranda prepara il tavolo con i “sette sin”, sistemandovi anche sette piatti di cristallo colmi di sette diversi tipi di dolci… proprio come fa ogni famiglia persiana, in ogni casa del Paese.

Quando tutto è pronto, la vecchietta siede sul tappeto, in ansiosa attesa di Zio Anno Nuovo: sa bene che chiunque lo incontri tornerà giovane di nuovo, proprio come la terra quando incontra la primavera. Aspetta… e nell’attesa pian piano si addormenta.

Quando lo Zio arriva, la vede dormire, e non ha cuore di svegliarla: coglie la rosa più bella e gliela mette fra le dita; assaggia la metà di una mela intinta nello zucchero; prende un tizzone dal camino e si accende la pipa. Poi riparte, verso la città, perché deve visitare tutte le case. Solo più tardi, il sole desta la vecchietta.

Ella vede la rosa e la mezza mela rimasta e comprende che Zio Anno nuovo è passato anche quest’anno, e che anche quest’anno non l’ha visto. “E’ accaduto ancora!” piange. “Ora dovrà attendere un altro anno intero per vederlo e tornare giovane!” E forse, la prossima primavera vi riuscirà.

Le celebrazioni del NowRuz

Anteriormente all’epoca sassanide si celebravano il primo e il sesto giorno di farvardin (Hormodz e Khordad), ma nel III secolo d.C. si cominciarono a considerare festivi anche i giorni intermedi. Le celebrazioni iniziavano comunque sempre circa una settimana prima del 21 marzo, poiché la creazione dell’universo (analogamente a quanto narrato nell’Antico Testamento) si pensava avvenuta in sei fasi, o tappe, con la comparsa dell’uomo soltanto il sesto giorno, in concomitanza con l’equinozio di primavera; il che conferiva a quel giorno un’importanza speciale, in quanto manifestazione del culmine della potenza e della gloria di Dio.

Nella definizione delle sei fasi della creazione (gahanbar) ciascuna di esse era stata inoltre identificata in un particolare periodo dell’anno: in altre parole, l’anno solare era diviso in sei stagioni, e alla fine di ognuna di esse gli antichi Persiani celebravano una festa; il più grande dei festeggiamenti era ovviamente riservato al NowRuz, momento in cui si celebrava il completamento della Creazione, e si credeva che le anime viventi in terra si incontrassero con gli spiriti celesti e le anime dei cari defunti.

Tra le manifestazioni popolari con cui si prepara e si accoglie questa, che è la festa più gioiosa dell’anno, vi è quella denominata Haji Firouz. Si tramanda che Haji Firouz fosse un uomo vestito di panni rossi che andava di strada in strada cantando e suonando il tamburello per salutare il nuovo anno ed informare la popolazione dell’arrivo della primavera; per compensarlo di aver recato la buona notizia, la gente gli regalava cibo o qualche moneta. Cosi, nei giorni precedenti il Now Ruz, tuttora per le strade delle città e dei villaggi iraniani scendono gli Haji Firouz di oggi, simili nel ruolo agli zampognari italiani che vagano tra i passanti durante le festività natalizie: vestiti di panni coloratissimi e con un cappello a punta, i volti neri di carbone, agitano il daf (il tamburello a sonagliera), cantano antiche strofe di buon auspicio e rispondono ai piccoli doni in denaro augurando ogni bene per l’anno nuovo.

Altrettanto cara alla popolazione iraniana è la festa del Tchahar Shanbeh Souri, che la sera prima dell’ultimo mercoledi dell’anno rievoca le antiche cerimonie del culto mazdaico del fuoco: quando scende la sera si accendono i falò e tutti, in special modo i giovani, spiccano salti superando d’un balzo le fiamme, e cantando: “Zardie man az to, Sorkhie to az man” (“Il mio giallo a te, il tuo rosso a me”), perché il fuoco assorba gli elementi negativi presenti nella persona il “giallo” parla di malattia e debolezza cedendole in cambio la sua energia e salute, il “rosso”.

La stessa sera, bambini e ragazzi vanno di casa in casa, tenendo celato il volto e il corpo con lenzuola per non farsi riconoscere e percuotendo con cucchiai il fondo di ciotole di metallo: si fermano dinanzi a ogni porta finché chi vive nella casa non apre, per regalare loro dolci, frutta secca o altri piccoli doni, cercando scherzosamente di far cadere le lenzuola per scoprire chi siano i “disturbatori”.

Vi è chi ricorda, nelle medesime ore, di osservare il Falgush, cioè l’usanza di restare nascosti in attesa che passino due persone intente a chiacchierare fra loro: le parole pronunciate dai due passanti e intese di sfuggita, avulse dal loro contesto, vengono poi interpretate per trarne auspici.

Gli Haft Sin

L’attenzione alla forza simbolica dei numeri si rispecchia nel rito dello Haft Sin (“haft” significa “sette”, “sin” è il nome della lettera “s” in Farsi), la più famosa delle tradizioni persiane di Capodanno, strettamente rispettata in tutte le case iraniane.

In ogni famiglia si sceglie un tavolo o un ripiano dove viene stesa una tovaglia; su questa si collocano sette oggetti il cui nome, in lingua persiana, inizia con la lettera “s”, e ciascuno dei quali in vario modo rappresenta il trionfo del bene sul male o della vita sulla morte, dal sabzeh (“piante verdi”: semi fatti germogliare in un piatto) alla mela (sib), all’aglio (sir), ad una qualità particolare di frutta secca (senjed), dall’aceto (serkeh) alla spezia chiamata somaq e ad un impasto di germi di grano e farina (samanu), o in altri casi il fiore di narciso (sombol), o una moneta (sekkeh).

Accanto ai sette sin, i Musulmani collocano una copia del Corano per implorare la benedizione di Dio sul nuovo anno. Molti sistemano sulla tovaglia anche una brocca d’acqua, segno di purezza, un pane, alimento fondamentale della vita, e persino, frutti, datteri, melograne, una candela, qualche uovo, magari colorato si pensa che i diversi colori delle uova simboleggino le diverse “razze” umane, considerate tutte uguali di fronte al Creatore o uno specchio.

Nella cultura iraniana, come in tante altre, il numero sette è considerato di ottimo auspicio. Allamah Majlesi, nel suo libro Bahar-ul-Anwaar, scrive: “I cieli sono formati di sette strati, e cosi pure la terra; e sette angeli li custodiscono; e se nel tempo in cui il nuovo anno si sostituisce al vecchio tu reciterai sette versetti o sette Sure del grande Corano che comincino con la lettera esse dell’alfabeto arabo, allora sarai protetto da tutte le disgrazie della terra o del cielo per l’intero anno che inizia”. In precedenza anche Ferdowsi, nello Shahnameh, aveva scritto che i cieli e la terra sono “fatti ciascuno di sette strati”; e narrato inoltre delle “sette meravigliose imprese di Rostam”, il più popolare fra gli eroi della tradizione epica persiana.

Ma già nell’Avesta di Zarathustra del numero sette si era parlato come di un segno sacro; e da radici altrettanto antiche derivava la credenza degli Iraniani del passato secondo cui l’anima di ogni credente, ovvero l’essenza della sua esistenza, dopo il momento della morte terrena si posava sul tetto della casa in cui egli aveva trascorso la vita, e li rimaneva per sette giorni e sette notti, quindi si recava alla propria tomba, e li di nuovo si fermava sino alla quarantesima notte; dopo di che, poteva finalmente raggiungere la dimora celeste (tuttora comunque i riti funebri per i defunti si celebrano nella ricorrenza del settimo e del quarantesimo giorno dal trapasso).

In testi di epoche lontane sono spesso menzionate le “sette storie dell’inferno”, e si fa riferimento ad un “re delle Sette Terre” (a “sette terre” o “sette regioni” accenna anche il testo introduttivo dello Shahnameh).

In uno dei più noti racconti mitologici, la storia di Sinbad, si parla di Kurdis, re dell’India, e dei suoi “sette ministri dotti”, fra i quali appunto Sinbad era il più sapiente. Esiste poi una narrazione relativa al Profeta Mohammad (S), citata da Saab bin Ebadeh, che racconta: “Del giorno di venerdi sono sette gli attributi, e l’uomo fu creato nel giorno di venerdi”.

Nel Corano, il numero sette è citato in almeno sette Sure e versetti; il Testo Sacro parla in varie occasioni di “sette giorni”, “sette strade”, “sette mari”, “sette cieli”, “sette notti”, “sette buoi maschi” e “sette verdi spighe di grano”.

Per quanto riguarda il più eloquente dei sette sin, il sabzeh, bisogna ricordare che la sua preparazione risale ad una tradizione molto antica. Generazione dopo generazione, le famiglie persiane erano solite approntare dodici piccoli piedistalli di argilla, in rappresentanza dei mesi, tutt’attorno al cortile di casa, seminando sopra ciascuno di essi vari tipi di piante, in particolare frumento, orzo, riso, fagioli, fave, lenticchie, miglio, piselli, sesamo e mais. Il sesto giorno di farvardin (27 marzo), riunita tutta la famiglia, si festeggiavano i germogli, cantando e suonando gli strumenti tradizionali. Le colonnine d’argilla dovevano restare intatte sino al sedicesimo giorno di farvardin, quando la famiglia verificava la crescita di ciascuna pianta: il seme che aveva prodotto il germoglio più alto veniva scelto per la coltivazione principale dell’anno appena iniziato.

Tuttora si provvede con una cura particolare alla preparazione dei germogli, sebbe il rito conservi ormai soltanto un carattere simbolico. Almeno dieci giorni prima di NowRuz è responsabilità della padrona di casa preparare una manciata di semi (la quantità dipende dal numero dei membri della famiglia), formulare un desiderio e un augurio di buona salute e prosperità, e nel frattempo deporre i semi stessi in un recipiente d’argilla pieno d’acqua. Quando si fanno bianchi, la padrona di casa toglie i semi dall’acqua e li dispone su un tessuto; non appena spuntano i germogli, li trasferisce su un vassoio di rame e li copre con un tovagliolo umido. Quando le piantine, ormai verdi, raggiungono una certa altezza, la donna le lega delicatamente con un nastro rosso: faranno parte della tavolata di Haft Sin finché, il tredicesimo giorno dopo Capodanno (Sizdeh-bedar), divenuti gialli, cioè maturi, verranno deposti in un ruscello perché tornino a fondersi con la natura.

Quando l’orologio indica l’arrivo del nuovo giorno, del primo giorno dell’anno nuovo, i membri della famiglia, spesso in abiti nuovi, si raccolgono attarno al tavolo, vicino al ripiano dove sono sistemati gli Haft Sin. Tutti recitano insieme almeno una preghiera, si abbracciano augurandosi reciprocamente salute e benessere, e infine cominciano il pranzo di Capodanno (abbondante e ricco quanto i “cenoni” occidentali). Il piatto tipico è il Sabzipolo mahi, riso alle verdure con salmone bianco del Caspio.

Poi i membri più anziani distribuiscono gli Eidi (piccoli doni) ai familiari più giovani: in genere, a seconda delle disponibilità economiche, (gesto di benevolenza in uso anche nei luoghi di lavoro, a favore dei dipendenti o dei sottoposti).

Il periodo di NowRuz si caratterizza anche per l’usanza degli scambi di visite tra parenti e amici; in questi casi si privilegiano le persone più anziane, e spesso si approfitta dell’occasione per rappacificarsi dimenticando le vecchie liti.

Secondo una delle antiche tradizioni, nel passato si riteneva che il ritorno delle anime dei defunti si verificasse il tredicesimo giorno di farvardin, il quale veniva dunque chiamato “il giorno dei morti” (proprio per la solennità di questo incontro ancora oggi gli Iraniani usano preparare le case al Capodanno con un’accuratissima pulizia di locali, tappeti, cortili, cosi resi degni di accogliere il ritorno dei familiari scomparsi). Forse per questa ragione, o forse per le valenze scaramantiche attribuite al numero tredici, in un passato piuttosto lontano in questa data si usava rompere qualche stoviglia, mentre tuttora si continua ad osservare l’usanza del Sizdeh-bedar, cioè ad organizzare gite di famiglia nel verde, per esorcizzare le forze del male.

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