L’ASTRONOMIA
In astronomia i musulmani continuarono la tradizione di Tolomeo, pur facendo ampio uso delle conoscenze dei Persiani e degli Indiani. I primi astronomi dell’Islam, che fiorirono durante la seconda metà del II/VIII secolo a Baghdad, fondarono le loro opere astronomiche sostanzialmente su tavole astronomiche persiane e indiane. L’opera astronomica più importante della Persia preislamica che sia conservata sono le Tavole del re (Zīj-i Shāhī o Zīj-i Shahriyārī), composte attorno al 555 d.C., durante il regno del re sasanide Anūshīrawān il Giusto, e fondate esse stesse in gran parte sulle teorie e le pratiche astronomiche degli Indiani.
Quest’opera fu per l’astronomia sasanide quel che i Siddhānta furono per gli Indiani e l’Almagesto per i Greci; essa ebbe nella formazione dell’astronomia islamica lo stesso importante ruolo di queste ultime fonti. Questo testo – che possedeva vari caratteri peculiari, incluso il fatto di fissare l’inizio del giorno alla mezzanotte anziché a mezzogiorno, com’era d’uso – furono tradotte in arabo da Abū’l-æasan al-Tamīmī, con un commento di Abū Ma‘shar (Albumasar), il più famoso astrologo musulmano. Le Zīj-i Shāhī furono la base dell’attività astronomica di famosi astronomi come Ibn al-Naubakht e Māshā’allāh (Messala), che fiorirono durante il regno di al-Manöūr, e che dettero un contributo ai calcoli preliminari per la fondazione della città di Baghdad. Insieme ad alcuni trattati astrologici, in cui l’enfasi, tipicamente sasanide, posta sulle congiunzioni Giove-Saturno fu trasmessa agli islamici, le Zīj-i Shāhī rappresentano la più importante eredità astronomica della Persia sasanide, e la base più antica per la fondazione dell’astronomia islamica.
Col primo astronomo ufficiale degli Abbasidi, Muáammad al-Fazārī, che morì attorno al 161/777, l’influenza indiana diretta divenne dominante. Nel 155/771 una missione indiana giunse a Baghdad per insegnarvi le scienze indiane e per cooperare nella traduzione di testi in arabo. Un paio di anni dopo apparvero le zīj di al-Fazārī, fondate sul Siddhānta di Brahmagupta. Al-Fazārī compose anche vari poemi astronomici e fu il primo nell’Islam a costruire un astrolabio, che più tardi divenne lo strumento tipico dell’astronomia islamica. La sua opera principale, che divenne nota come il Grande Siddhānta, rimase l’unica base della scienza astronomica fino all’epoca di al-Ma’mūn, nel III/IX secolo.
Attivo nell’introdurre l’astronomia indiana nell’Islam fu un contemporaneo di al-Fazārī, Ya‘qūb ibn Tariq, il quale studiò sotto la guida di un maestro indiano e divenne molto esperto nel settore. Principalmente attraverso gli sforzi di questi due uomini, più di quelli di tutti gli altri, l’astronomia e la matematica indiane furono immesse nella corrente della scienza islamica. Altre opere in sanscrito, fra cui particolarmente il Siddhānta di Āryabhata, ebbero una certa diffusione in quest’epoca, rimanendo, assieme alle opere persiane già citate, le fonti autorevoli dell’astronomia fino all’epoca di al-Ma’mūn, quando furono tradotte in arabo opere greche.
Nell’ambito dell’ampio movimento che ebbe luogo sotto al-Ma’mūn per tradurre opere straniere in arabo, divennero disponibili anche testi astronomici greci fondamentali, i quali sostituirono in qualche misura le opere indiane e persiane che avevano monopolizzato il campo fino a quel periodo. L’Almagesto fu tradotto varie volte, e furono tradotti anche il Tetrabiblos (Quadripartitum) e le tavole astronomiche di Tolomeo, note come Canones procheiroi.
Con queste e altre traduzioni dal greco e dal siriaco fu preparato il terreno per l’ascesa dell’astronomia islamica, e nel III/IX secolo apparvero sulla scena alcune fra le massime figure della scienza. La prima parte del secolo fu dominata da æabash al-æāsib, sotto la cui direzione furono composte le tavole “ma’mūniche”; da al-Khwārazmi, che, oltre ai suoi importanti scritti matematici, lasciò significative tavole astronomiche; e da Abū Ma‘shar. Quest’ultimo è l’astrologo musulmano citato più spesso in Occidente, e il suo Introductorium magnum in astrologiam fu tradotto e stampato varie volte in latino. Al periodo di al-Ma’mūn appartiene anche al-Farghānī (Alfragano), l’autore dei ben noti Elementi di astronomia.
Nella seconda metà del III/IX secolo lo studio dell’astronomia continuò il suo rapido corso. Al-Nairīzī (Anarizio) commentò l’Almagesto e scrisse il trattato più complesso che sia mai stato scritto in arabo sull’astrolabio sferico (o armilla). Anche il suo contemporaneo Thābit ibn Qurrah (Tebizio) giocò un ruolo di primo piano nel campo dell’astronomia; egli è particolarmente famoso per aver sostenuto la teoria del moto oscillatorio degli equinozi. Per rendere conto di questa trepidazione, aggiunse una nona sfera alle otto dell’astronomia tolemaica, un’innovazione adottata dalla maggior parte degli astronomi musulmani posteriori.
Il suo compatriota al-Battānī (o Albategno), che alcuni autori considerano il più grande astronomo musulmano, seguì presto Thābit ibn Qurrah e continuò la sua linea di studio, pur ripudiando la teoria della trepidazione. Al-Battānī eseguì alcune fra le osservazioni più precise negli annali dell’astronomia islamica. Egli scoprì lo spostamento dell’apogeo del Sole dal tempo di Tolomeo, osservazione che lo condusse alla scoperta del moto degli apsidi solari. Determinò l’entità della precessione a 54,5’’ all’anno, e l’inclinazione dell’eclittica a 23° 35’. Scoprì anche un nuovo metodo per determinare il tempo della visione della Luna nuova, e fece uno studio dettagliato di eclissi solari e lunari, utilizzato ancora nel Settecento da Dunthorn nella sua determinazione della graduale variazione del moto della Luna. L’opera astronomica principale di al-Battānī, la quale contiene anche una serie di tavole, divenne nota in Occidente col titolo De scientia stellarum; essa rimase una fra le opere fondamentali dell’astronomia fino al Rinascimento. Non sorprende che le sue opere abbiano ricevuto, nell’edizione con traduzione e commento del celebre studioso italiano C.A. Nallino, uno studio più attento di quello dedicato alle opere di qualsiasi altro astronomo musulmano in epoca moderna.
L’osservazione astronomica fu portata avanti durante il IV/X secolo da figure come Abū Sahl al-Kūhī e ‘Abd al-Raámā al-÷ūfī. Quest’ultimo è particolarmente famoso grazie alle Figure delle stelle, che G. Sarton, l’eminente storico della scienza islamica, considera, assieme alle zij di Ibn Yūnus e a quelle di Ulugh Beg, uno fra i tre massimi capolavori dell’astronomia di osservazione nell’Islam. Questo libro, che fornisce una carta di stelle fisse con figure, ebbe una grande diffusione sia in Oriente sia in Occidente; i suoi manoscritti sono fra i più belli della letteratura scientifica medievale. A questo periodo appartengono anche Abū Sa‘īd al-Sijzī, che fu particolarmente notato per aver costruito un astrolabio fondato sul moto della Terra attorno al Sole, e il già citato Abū’l-Wafā’ al-Buzjānī, il quale, oltre a essere fra i matematici musulmani più notevoli, fu anche un esperto astronomo. Scrisse una versione semplificata dell’ Almagesto per facilitare la comprensione dell’opera di Tolomeo, e parlò della seconda parte dell’evezione della Luna in modo tale da indurre lo studioso francese L.Am. Sédillot a iniziare, nell’Ottocento, una lunga polemica sulla presunta scoperta, da parte di Abū’l-Wafā’, della terza disuguaglianza della Luna. L’opinione corrente tende, a ogni modo, a screditare questa tesi, e a riconfermare Tycho Brahe quale suo scopritore.
Dobbiamo citare infine, come uno dei contemporanei di Abū’l-Wafā’, l’alchimista e astronomo andaluso Abū’l-Qāsim al Majrīøī, la cui fama è legata soprattutto ai suoi scritti ermetici e occultistici. Al- Majrīøī fu anche un capace astronomo e scrisse commenti alle tavole di Muhammad ibn Mūsā al-Khwārazmī e al Planisphaerium di Tolomeo, oltre a un trattato sull’astrolabio. Inoltre furono lui e il suo discepolo al-Kirmānī ad aver fatto conoscere in Andalusia le Epistole dei Fratelli della Purità.
Il V/XI secolo, che segna l’apogeo dell’attività nelle scienze islamiche, fu anche testimone dell’opera di vari importanti astronomi, fra cui al-Bīrūnī, la cui determinazione di latitudini e longitudini, misurazioni geodetiche e vari calcoli astronomici importanti ne fanno una fra le figure principali in questo campo. Ibn Yūnus, che fu l’astronomo della corte fatimide del Cairo, completò le sue Zīj (le Tavole hākimite) nel 397/1007, e dette così un contributo duraturo all’astronomia islamica. Queste tavole, nelle quali molte costanti furono rimisurate accuratamente, sono fra le più precise che siano state compilate durante il periodo islamico. Ibn Yūnus è considerato per questa ragione da alcuni storici della scienza, come Sarton, forse l’astronomo musulmano più importante, prescindendo dal fatto che fu un abile matematico, che risolse problemi di trigonometria sferica per mezzo di proiezioni ortogonali e che fu probabilmente il primo a studiare il moto oscillatorio isometrico di un pendolo – un’investigazione che condusse più tardi alla costruzione di orologi meccanici.
Alla seconda metà di questo secolo appartiene il primo eminente astronomo d’osservazione spagnolo, al-Zarqālī (Arzachel). Egli inventò un nuovo strumento astronomico chiamato öaáīfah (Saphaea Arzachelis), che divenne molto noto; gli viene attribuita anche la dimostrazione esplicita del moto dell’apogeo del Sole rispetto alle stelle fisse. Il suo contributo più importante è costituito però, dalla pubblicazione delle Tavole toledane, composte con l’aiuto di vari altri scienziati musulmani ed ebrei, e ampiamente usate da astronomi sia latini sia musulmani di secoli posteriori.
L’astronomia spagnola dopo al-Zarqālī si sviluppò in una vena antitolemaica, nel senso che cominciarono a essere avanzate critiche contro la teoria degli epicicli. Nel VI/XII secolo cominciò a criticare il sistema planetario tolemaico Jābir ibn Aflāá, che in Occidente fu noto come “Geber” e fu spesso scambiato col famoso alchimista. Criticarono Tolomeo anche i filosofi Avempace e Ibn Tufail (noto in Occidente come Abubacer). Avempace, sotto l’influenza della cosmologia aristotelica, che stava cominciando allora a diventare dominante in Andalusia, propose un sistema fondato esclusivamente su cerchi eccentrici; Ibn Tufail è considerato l’autore di una teoria che fu sviluppata più compiutamente da un suo discepolo del VII/XIII secolo, al-Bitrūjī (Alpetragio). Era questo un sistema complesso di sfere omocentriche che è stato chiamato anche «teoria del moto a spirale» perché nella sua visione i pianeti sembrano compiere una sorta di movimento a “spirale”. Benché questo nuovo sistema non presentasse alcun vantaggio rispetto a quello tolemaico, e non riuscisse a soppiantarlo, le critiche dirette al sistema tolemaico da al-Bitrūjī e dagli astronomi anteriori furono usate dagli astronomi del Rinascimento come uno strumento efficace contro la vecchia astronomia di Tolomeo.
Anche in Oriente una certa insoddisfazione nei confronti del sistema tolemaico andò di pari passo col lavoro astronomico fondato sulla sua teoria. Le Sanjarī Zīj, composte nel VI/XII secolo da al-Khāzinī, furono seguite dalle Tavole ilkhanidi del VII/XIII secolo, che furono il frutto di osservazioni compiute a Maragha. Ma nello stesso tempo anche Naöīr al-Dīn al-Tūsī, l’astronomo più importante di Maragha, criticò severamente Tolomeo. Nel suo Memoriale di astronomia, al-Tūsī dimostrò chiaramente la sua insoddisfazione nei confronti della teoria planetaria tolemaica. Di fatto, al-Tūsī propose un nuovo modello planetario che fu portato a compimento dal suo discepolo Qutb al-Dīn al-Shīrāzī. Questo nuovo modello cercava di essere più fedele del modello tolemaico al concetto della natura sferica dei cieli, collocando la Terra nel centro geometrico delle sfere celesti e non a una certa distanza dal centro, come troviamo in Tolomeo. Al-Tūsī concepiva poi due sfere ruotanti l’una all’interno dell’altra per spiegare il moto apparente dei pianeti.
Questo è il motivo per cui lo storico americano delle matematiche islamiche, E.S. Kennedy, che scoprì questo modello planetario, lo designò come «coppia di Al-Tūsī», poiché esso rappresenta la somma di due vettori mobili. Al-Tūsī intendeva calcolare i particolari di questo modello per tutti i pianeti, ma evidentemente non completò questo progetto. Sul suo discepolo Quøb al-Dīn al-Shīrāzī ricadde il compito di elaborare una variazione di questo modello per Mercurio, e sull’astronomo damasceno dell’ VIII/XIV secolo Ibn al-Shāøir quello di completare il modello lunare nel suo Testo dell’investigazione finale nell’emendazione degli elementi. Ibn al-Shāøir, rifacendosi al modello di Al-Tūsī, fece a meno del deferente eccentrico di Tolomeo e introdusse un secondo epiciclo nei sistema sia solare che lunare. La teoria lunare proposta due secoli più tardi da Copernico è la stessa di Ibn al-Shāøir, e pare che Copernico fosse in qualche modo a conoscenza di questo tardo sviluppo dell’astronomia islamica, forse attraverso una tradizione bizantina. Tutto ciò che c’è di nuovo astronomicamente in Copernico può essere trovato sostanzialmente nella scuola di al-ßūsī e dei suoi discepoli.
La tradizione di Maragha fu continuata dai diretti discepoli di al-Tūsī, come Quøb al-Dīn al-Shīrāzī e Muáyī al-Dīn al-Maghribī, oltre che dagli astronomi raccolti da Ulugh Beg a Samarcanda, come Ghiyāth al-Dīn al-Kāshānī e Qūshchī. Essa sopravvisse addirittura fino ai tempi moderni in varie regioni del mondo islamico, come l’India settentrionale, la Persia e, in una certa misura, il Marocco. Furono composti molti commenti su opere anteriori, come il commento sul trattato di Qūshchī sull’astronomia, a opera di ‘Abd al-æayy Lārī nell’XI/XVII secolo, che è stato popolare in Persia fino all’epoca moderna.
Questa posteriore tradizione dell’astronomia islamica continuò a correggere le insufficienze matematiche del modello tolemaico, ma non infranse i confini dell’universo tolemaico chiuso, che era così intimamente connesso alla visione medievale del mondo. È vero che molti fra gli astronomi medievali posteriori criticarono vari aspetti dell’astronomia tolemaica. È certo anche che astronomi come al-Bīrūnī conobbero la possibilità del moto della Terra attorno al Sole e addirittura – come propose al-Bīrūnī nelle sue lettere ad Avicenna – la possibilità di un moto ellittico anziché circolare dei pianeti. Nessuno di essi però fece, né poté fare, il passo di rompere con la visione tradizionale del mondo, come sarebbe accaduto in Occidente nel Rinascimento – perché una tale decisione avrebbe significato non solo una rivoluzione nell’astronomia, bensì anche uno sconvolgimento nei settori religioso, filosofico e sociale. Non si può sopravvalutare l’influenza della rivoluzione astronomica sulla mente dell’uomo. Finché la gerarchia della conoscenza rimase intatta nell’Islam, e la scientia continuò a essere coltivata in seno alla sapientia, una certa “limitazione” nel dominio fisico fu accettata al fine di preservare la libertà d’espansione e di realizzazione nel dominio spirituale. La parete del cosmo fu preservata al fine di proteggere il significato simbolico che una tale visione murata del cosmo presentava per la maggior parte dell’umanità. Fu come se gli antichi scienziati e studiosi prevedessero che il crollo di quella parete avrebbe distrutto anche il contenuto simbolico del cosmo, e addirittura cancellato il significato del “cosmo” (lett. ordine) per la grande maggioranza degli uomini, per i quali è difficile concepire il cielo come della materia incandescente che turbina nello spazio e al tempo stesso come il Trono di Dio. Così, nonostante tutta la possibilità tecnica, il passo verso la rottura della visione tradizionale del mondo non fu compiuto, e i musulmani si accontentarono di sviluppare e perfezionare il sistema astronomico che avevano ereditato dai Greci, dagli Indiani e dai Persiani, e che era stato pienamente integrato nella visione islamica del mondo.
I vari caratteri nuovi dell’astronomia islamica includono, oltre a tutti i perfezionamenti apportati al sistema tolemaico, il catalogo stellare di Ulugh Beg, che fu il primo catalogo nuovo dall’epoca di Tolomeo, e la sostituzione del calcolo delle corde col calcolo dei seni e con la trigonometria. Gli astronomi musulmani modificarono anche il sistema generale degli Alessandrini in due importanti aspetti. La prima modificazione consisté nell’abolire le otto sfere che Tolomeo aveva ipotizzato per comunicare il moto diurno a ciascun cielo; i musulmani sostituirono un singolo cielo senza stelle ai confini dell’universo, al di sopra del cielo delle stelle fisse, che nel compiere la sua rotazione diurna trasporta con sé tutti gli altri cieli. La seconda modifica, che ebbe una maggiore importanza per la filosofia delle scienze, implicò un mutamento nella natura dei cieli. Fra i molti problemi di astronomia, quelli che erano particolarmente interessanti per gli astronomi musulmani riguardavano la natura dei corpi celesti, il moto planetario e la distanza e dimensione dei pianeti, che erano connessi con calcoli fondati sui modelli matematici con cui essi operavano. Essi ebbero ovviamente un grande interesse anche per l’astronomia descrittiva, come dimostrano i loro nuovi cataloghi stellari e le nuove osservazioni dei cieli.
È ben noto che, nell’Almagesto, Tolomeo si era occupato delle sfere celesti in quanto forme puramente geometriche, ipotizzate al fine di “salvare i fenomeni”. Egli seguiva quindi la tradizione degli astronomi matematici greci, i quali non si erano interessati tanto alla natura ultima dei cieli, quanto ai mezzi per descriverne i moti secondo leggi matematiche. I musulmani, reagendo contro questo punto di vista, procedettero a “solidificare” i cieli tolemaici, in accordo con la prospettiva “realistica” della mentalità musulmana e, seguendo tendenze già presenti nelle Ipotesi sui pianeti, attribuirono a volte questa concezione allo stesso Tolomeo. I musulmani hanno sempre preso in considerazione il ruolo della scienza naturale nella scoperta di quegli aspetti della Realtà rappresentati nell’esistenza fisica, più che la creazione di costrutti mentali da imporre alla Natura, senza che abbiano una corrispondenza necessaria con i vari aspetti della Realtà. La solidificazione degli astratti cieli tolemaici rappresenta quindi una profonda trasformazione del significato e del ruolo delle scienze matematiche nel loro rapporto con la Natura, un problema fondamentale per la filosofia delle scienze.
La tendenza verso l’interpretazione “fisica” dei cieli fu evidente già negli scritti dell’astronomo e matematico del III/IX secolo Thābit ibn Qurrah, e specialmente nel suo trattato sulla costituzione dei cieli. Benché l’originale di tale trattato sia andato a quanto pare perduto, citazioni nelle opere di molti autori più tardi, fra cui Maimonide e Alberto Magno, indicano che Thābit ibn Qurrah aveva concepito i cieli come sfere solide, con un fluido comprimibile interposto fra gli orbi e gli eccentrici.
Questo processo di trasformazioni dei cieli astratti dei Greci in corpi solidi fu portato avanti da Alhazen, che è più famoso per i suoi studi di ottica che non per quelli di astronomia. Nel suo Compendio di astronomia (sebbene l’originale arabo sia andato perduto, ci rimangono versioni in ebraico e latino), Alhazen descrive il moto dei pianeti non solo in termini di eccentrici ed epicicli, ma anche secondo un modello fisico che esercitò una grande influenza sul mondo cristiano fino all’epoca di Keplero. È curioso, a ogni modo, che i filosofi e scienziati musulmani non riconoscessero in generale, a quanto sembra, le implicazioni di questa solidificazione dei cieli tolemaici. I peripatetici andalusi, come Ibn Tufail e Averroè, continuarono ad attaccare l’astronomia tolemaica nel nome della fisica aristotelica, trascurando di considerare anche l’opera di Alhazen – forse perché, come suggerisce Duhem, essa avrebbe indebolito il loro ragionamento. A ogni modo, con la traduzione in spagnolo del trattato di Alhazen, seguendo la direttiva di Alfonso il Savio, l’opera divenne invece uno strumento dei sostenitori latini di Tolomeo nella loro difesa contro gli attacchi dei peripatetici. Anche nel mondo musulmano essa venne ora considerata con favore dagli astronomi; tre secoli dopo Nāsī al-Dīn al-Tūsī avrebbe composto un trattato sui cieli fondato sul Compendio di Alhazen e seguendo molto da vicino le sue idee.
Quasi tutti gli astronomi musulmani, e specialmente coloro che si occuparono di astronomia matematica, affrontarono il problema dei moti planetari. Pochi, tuttavia, lo trattarono con tanta profondità e rigore quanto al-Bīrūnī. Abbiamo già avuto occasione di menzionare il nome di al-Bīrūnī come uno dei più universali scienziati e studiosi musulmani. In astronomia, come anche in fisica e storia, egli dette molto contributi di primo piano. Il suo Canone di al-Mas‘ūdī è la più importante enciclopedia astronomica musulmana; essa si occupa di astronomia, di geografia astronomica e di cartografia, e di varie branche della matematica, attingendo agli scritti dei Greci, degli Indiani, dei Babilonesi e dei Persiani, oltre che di anteriori autori musulmani, e anche alle sue proprie osservazioni e misurazioni. Se la sua opera fosse stata tradotta in latino sarebbe certamente divenuta famosa come il Canone di Avicenna. Scrivendo press’a poco nello stesso periodo di Alhazen, al-Bīrūnī descrisse il moto dei pianeti al modo di Tolomeo, mettendo il sistema degli eccentrici e degli epicicli in quella forma molto complessa per la quale l’astronomia medievale è diventata famosa. Quest’enciclopedia astronomica è la prova migliore dei processi mentali dello scienziato astronomico musulmano, quando cercava di decifrare i complessi moti planetari nei termini dei cerchi dei pitagorici – da un lato trasformando le astratte figure geometriche dei Greci in sfere concrete, dall’altro conservando l’idea di armonia celeste che aveva impregnato profondamente lo spirito degli gnostici greci, specialmente della scuola di Pitagora.
Un altro problema che occupò una posizione centrale nell’astronomia musulmana fu quello delle dimensioni del cosmo e dei pianeti. Dei vari tentativi compiuti da astronomi musulmani di determinare distanze e dimensioni dei pianeti, nessuno divenne tanto noto quanto quello di al-Farghānī, l’astronomo della Transoxiana del III/IX secolo. I suoi Elementi di astronomia (Rudimenta astronomica) furono tradotti in latino, e le distanze fornite in essi furono accettate universalmente in Occidente fino all’epoca di Copernico. Nel determinare le distanze dei pianeti, al-Farghānī seguì la teoria secondo cui nell’universo non c’è “spazio sprecato” – ossia che l’apogeo di un pianeta è tangente al perigeo del successivo. Le distanze date da al-Farghānī per l’apogeo e il perigeo di ciascun pianeta nel sistema epiciclico corrispondono alle eccentricità delle ellissi nell’astronomia moderna.