ARTI VISIVE
La pittura è una delle arti visive più coltivate nella cultura persiana: le sue radici affondano nei secoli, nutrite dal gusto per la decorazione accurata che già caratterizzava l’artigianato achemenide, dalla fantasiosa raffinatezza della miniatura, dalla forza evocativa delle raffigurazioni popolari dei “cantastorie” nelle case da the.
In effetti, la miniatura persiana, tanto ricca di sottile delicatezza da far dire che i suoi artisti usino pennelli di un solo pelo, è famosa in tutto il mondo. Si ritiene che l’origine di questa forma d’arte si debba far risalire alla predilezione per la pittura nutrita dal leader religioso persiano Mani (216-277 d.C.). Più tardi, poiché la dottrina islamica, pur senza proibirli, non favoriva i ritratti e le raffigurazioni di persone ed eventi, per le decorazioni si preferì ricorrere alla calligrafia, ai motivi floreali, alle composizioni geometriche, mentre la policromia sopravviveva solo nella ceramica e si dipingeva solo per illustrare testi, quali il Corano, le opere scientifiche, i poemi epici, le leggende, i panegirici in lode delle gesta di sovrani o eroi.Nel contempo, gli artisti persiani subivano anche l’influenza dei manoscritti bizantini, soprattutto sotto il profilo dell’immobilità ieratica dei modelli cristiani.
Già nell’XI secolo d.C. i Persiani erano considerati i maestri indiscussi della miniatura, e da allora lo sono sempre rimasti. Nel tardo XV secolo e agli inizi del successivo quest’arte raggiunse il culmine della bellezza e della qualità. Nella città di Herat (oggi in Afghanistan) erano permanentemente all’opera 40 calligrafi; a Tabriz un pittore geniale, Behzad, che dirigeva il lavoro di centinaia di artisti, riuscì a rinnovare la miniatura combinando il concetto tradizionale di decorazione con un gusto speciale per il realistico e il pittoresco. Le composizioni di questo periodo rivelano coraggiosi talenti espressivi, soprattutto nella sottile armonia dei colori. Scene composte di una moltitudine di figure coprono grandi pagine senza lasciare vuoti; le distanze sono espresse dalla sovrapposizione degli oggetti, tutti ugualmente illuminati, con un risultato complessivo di grande delicatezza e di splendida policromia.
Un ulteriore passo nell’evoluzione di quest’arte si verificò grazie all’influenza del pittore Reza Abbasi, quando nelle miniature cominciò ad emergere un certo grado di nudo realismo. Abbasi fu il primo artista la cui ispirazione derivasse direttamente dalle scene delle strade e del bazar di Isfahan. In questo periodo le pareti dei palazzi vennero coperte di affreschi su temi di guerra o argomenti più leggeri, poi riprodotti sempre più frequentemente. Ottimi esempi ne sono conservati nel Palazzo delle Quaranta Colonne (Chehel Sutun) di Isfahan.
Nel XIX secolo la miniatura cominciò gradualmente a cadere in disuso, anche a causa della sempre più forte influenza occidentale. Mirza Baba, pittore ufficiale della corte Qajar, dipinse ritratti di principi dalla rilevante espressività, ma anche coperchi di cassepanche, scrittoi e custodie di specchi dove è evidentissima l’influenza della secolare tradizione della miniatura. In questo periodo cominciarono inoltre a comparire in Iran anche pitture murali “naif”, chiamati “dipinti delle case da tè”. Si trattava di grandi affreschi, o di sequenze di scene, utilizzati come riferimento dai cantastorie: vi erano illustrate le gesta degli eroi leggendari dell’epica persiana, resi immortali dallo Shahnameh di Ferdowsi, come per esempio Rostam, ma anche storie d’amore come quella di Youssef e Zuleikha, ed eventi della storia dello Shiismo, in particolare la tragedia di Garbala, con il martirio del santo Imam Hossein.
La Rivoluzione del 1978/ 79 ha avuto fra l’altro il merito di favorire la diffusione e lo sviluppo della pittura , da un lato istituendo corsi e facoltà specifiche nel sistema scolastico sia statale sia privato, restaurando i musei, sostenendo la fondazione di gallerie e mostre apposite, dall’altro consentendo agli studiosi e agli artisti iraniani di rivolgere l’attenzione alla tradizione pittorica peculiarmente persiana, che la monarchia Pahlavi aveva pervicacemente trascurato imponendo l’occidentalizzazione indiscriminata di tutte le manifestazioni artistiche del Paese.
La figura preminente della pittura iraniana del Novecento è Kamal-ol-Molk, scomparso nel 1940 e considerato non solo il padre della moderna arte figurativa nazionale, ma uno dei simboli più amati del Paese. Si deve a lui, infatti, il radicale rinnovamento delle tecniche pittoriche persiane, il nascere di una nuova concezione dello stile come volontà di superare la tradizione, sia rivoluzionando le formule compositive sia assegnando al dipinto il compito di esprimere e comunicare lo “spirito del tempo”. La sua ricerca di realismo infatti non è mai disgiunta dal libero corso dell’immaginazione, espressa in giochi di prospettiva e in una rara essenzialità di tinte – innovazioni, queste, alquanto coraggiose nell’ambiente artistico persiano a cavallo fra il XIX e il XX secolo.
Kamal-ol-Molk nasce in una famiglia, la Ghaffari-Kashani, di provato talento artistico (suo padre, suo zio e suo fratello sono tuttora riconosciuti fra le personalità più significative nella storia dell’arte iraniana recente); il re Qajar Nassreddin Shah presto gli conferisce il titolo di “Maestro dei Pittori”, nominandolo comandante di un battaglione di cavalleria nella provincia di Qazvin. Qui egli vive il periodo più produttivo della sua esistenza artistica, dipingendo più di centosettanta tele. Alla morte del monarca, tuttavia, Kamal-ol-Molk, estremamente critico riguardo alle condizioni in cui i Qajar mantengono il Paese, travagliato dalla corruzione e facile preda delle mire delle potenze straniere, lascia l’incarico e si reca in Europa, dove rimane per cinque anni.
Il successore di Nassreddin, Mozafareddin Shah, lo raggiunge per pregarlo di tornare in patria; e Kamal-ol-Molk acconsente, sperando di poter contribuire all’evoluzione del Paese. Si accorge tuttavia che nulla è cambiato, soprattutto nei costumi della Corte e nel generale disordine: dopo aver pazientato a fatica per alcuni mesi, in occasione di un pellegrinaggio religioso lascia di nuovo l’Iran e si stabilisce in Iraq per un biennio. Le sue tele esprimono con efficacia le emozioni e lo sdegno provati di fronte alle condizioni di povertà e di abbandono in cui ha visto giacere il suo popolo.
Nei primi anni del secolo offre quindi volentieri il proprio sostegno alla lotta dei Costituzionalisti; e per partecipare direttamente all’opera di opposizione contro la monarchia torna di nuovo in patria. Nel 1906 i Qajar sono costretti a varare una Costituzione, che pure dovrà essere difesa con risolutezza dai tentativi di abolirla del successore Mohammad Ali Shah. Con fatica, ma con estrema tenacia, Kamal-ol-Molk riesce a porre le basi di una scuola dove coloro che si interessano all’arte possano ricevere una formazione adeguata: nasce così in Iran la prima vera “Scuola di Belle Arti”, dove per un certo periodo egli stesso lavora come insegnante, quasi sempre devolvendo il proprio stipendio agli studenti più poveri. Ama ripetere: “Nella stessa misura in cui insegno ai miei allievi, io imparo da loro”.
I drammatici mutamenti della situazione politica e le pesantissime interferenze di Russi e Britan-nici che si disputano il controllo dell’Iran sfociano nel colpo di Stato del 1920 e nel successivo insediamento di Reza Khan sul trono per volere di Londra. Kamal-ol-Molk si rende subito conto che non esistono differenze di sostanza fra il dispotismo dei Qajar e quello della neonata dinastia Pahlavi, e nonostante Reza Shah compia ogni sforzo per convincerlo, si rifiuta di collaborare con la Corte. Di conseguenza lo shah boicotta la sua Scuola e gli crea ogni sorta di difficoltà sul piano amministrativo finché, nel 1927, Kamal-ol-Molk è costretto a dimettersi. L’anno successivo viene esiliato a Hosseinabad, una frazione di Neishabour: il forzato distacco dagli allievi, dall’attività artistica e educativa ne minano il fisico oltre che l’anima. In seguito ad un incidente tuttora rimasto misterioso, egli perde anche l’uso di un occhio, e smette di dipingere; morirà in povertà dodici anni dopo.
Lo sforzo di ricerca sviluppato dai pittori iraniani contemporanei nell’ultimo ventennio – ricerca che include sempre la massima attenzione verso l’arte occidentale, ma in uno spirito di autonomia e soprattutto senza tentativi di emulazione pedissequa – va oggi gradualmente sfociando in un delinearsi più netto delle principali tendenze stilistiche. Ponendo ogni cura nell’evitare comparazioni improprie fra gli esiti espressivi di tradizioni culturali diverse, generate e sostentate da percorsi storici differenti, e all’unico scopo di consentire al lettore occidentale un primo elementare approccio si potrebbe affermare che prevale oggi, fra i pittori iraniani, un orientamento di tipo espressionista, che a volte si avvale delle cifre stilistiche del simbolismo, a volte di spunti surrealisti. La produzione figurativa appare poi spesso – più o meno consapevolmente – influenzata dalle formule della grafica, nella ri-cerca di un’estrema essenzialità del tratto, e di un uso del co-lore come elemento narrativo. Da questo punto di partenza, poi, alcuni pittori compiono volentieri passi ulteriori verso una progressiva astrazione, o per lo meno una maggiore stilizzazione delle forme.
Si osservi per esempio l’opera di Honibal Alkhas, nato a Kermanshah nel 1930 e formatosi presso l’Art Institute di Chicago dopo aver appreso i rudimenti dell’arte da Alexis Georgis in Arak e da Ja’far Petgar in Teheran. Alkhas ama affermare che il suo stile consiste nel “giustapporre il possibile e l’impossibile”, e definirsi sì espressionista, ma “eclettico nel senso più ampio del termine”, quindi aperto anche a suggestioni classiche se non addirittura surrealistico-romantiche.
Altra direzione ha invece imboccato Tahereh Mohebbi Taban, nata a Teheran nel 1949, oggi attiva anche nei campi del design, della grafica e della scultura, oltre che nell’insegnamento (le sue opere sono state esposte anche in Giappone e Canada). La sua attenzione si accentra in particolare sul rapporto tra forma e colore come formula per l’espressione visuale delle idee; le sue preferenze vanno ai contrasti fra le tinte o le tessiture, fra gli spessori delle diverse linee, fra i piani nella loro rispettiva collocazione e distanza. Di conseguenza, le sue forme sono quasi sempre stilizzate, e la tendenza ad una progressiva astrazione è chiarissima, come pure il continuo sforzo di sintesi.
Solo apparentemente diversa è la strada scelta dal pittore e sociologo cinquantottenne Farrokhzad. I suoi acquerelli si rifanno ora esplicitamente alla più antica cultura persiana, riprendendo segni e simboli propri dell’epoca pre-islamica, soprattutto achemenide: il fiore a otto petali, la coda del leone, le ali dell’aquila, il corno del toro, il cerchio come fattore unificante. I diversi elementi sono inserite in modo armonico su sfondi nebbiosi, quasi scenari onirici, accanto a forme raffiguranti capre o cavalli alati, per un risultato globale che l’osservatore europeo tenderebbe a definire surrealistico.
Se l’atmosfera dei dipinti di Farrokhzad appare complessivamente serena, quasi fatata, la maggior parte dei più giovani fra i pittori contemporanei iraniani, soprattutto di quanti fra essi hanno incominciato a dipingere negli anni della guerra di difesa dall’aggressione irachena, esprimono con notevole efficacia, sebbene in forme a volte ancora grezze, un profondo senso del tragico.
Lo si comprende quando si riesce ad oltrepassare un primo livello di lettura delle loro tele, dove il ricorso a certi simboli troppo letterari (e letterali) appare forse frettoloso, immaturo, o meglio sintomo di uno stadio acerbo di ricerca e riflessione. La tremenda forza, insieme distruttrice e creatrice, della sofferenza umana diviene plasticità di linee e pennellate, nel deformarsi dei visi, nel contorcersi dei corpi, e le vibrazioni dei colori non sono che il prolungarsi di urla strazianti.
Nasser Palangi (Hamadan, 1957) dipinge scene corali di dolore terreno che richiamano alla mente bolgie dantesche avvolte dalle fiamme; Kazem Chalipa (Teheran, 1957) concepisce le viscere della Terra come un’unica gigantesca buia tana di creature dis/umane dai volti simili a musi di ratti, e la sua superficie come una landa desolata dove strani feroci avvoltoi aggrediscono uomini in fuga; Hossein Khosrojerdi (Teheran, 1957) moltiplica l’Urlo di Munch sui volti di figure che non sono però mere sagome, perché mantengono una misura di realtà che rende la loro disperazione più “storica” e forse più atroce.
Di questa generazione di pittori va comunque sottolineata anche – o forse in primo luogo – la costante attenzione alle problematiche sociali, ai drammi della popolazione iraniana (la guerra, come si diceva; la povertà sperimentata come una condanna sino al momento della Rivoluzione), al contrasto stridente fra la solitudine dell’individuo schiacciato dalle ingiustizie e il senso di rinascita che si genera dalla solidarietà, ed ai valori più profondi della cultura iraniana nel suo insieme, dal senso dell’onore al concetto di libertà come scioglimento mistico nell’Essere supremo. Probabilmente, proprio in questo carattere comune, e nel rifiuto netto dell’arte “fine a se stessa”, risiede l’eredità che questi giovani pittori intendono raccogliere dalla più autentica tradizione persiana, eredità che attende ora di essere ulteriormente raffinata e resa consona ai tempi anche sul piano stilistico.