Ta’ziyeh
Evoluzione e considerazione della ta’ziyeh, dagli inizi nel XVIII secolo fino ai giorni nostri
Il genere teatrale persiano della ta’ziyeh, incentrato sul massacro del terzo imam Husayn e dei suoi seguaci a Kerbala da parte delle truppe del califfo Yazid nel mese di Muharram del 680 d.C., nasce nella seconda metà del XVIII secolo, nell’Iran della dinastia Zand. Tuttavia le premesse di questa forma d’arte drammatica si possono ravvisare già in epoca safavide, nelle cerimonie devozionali sciite di Muharram (dasta) e nelle recite dei rowze-khwâni (Recite del giardino” in persiano )che prendono il nome dall’elegia Rowzatu’l Shuhada” (Il giardino dei martiri” in arabo), incentrata sulle vicende dei martiri di Kerbala, del poeta persiano Kāŝefi (1436-1504). La ta’ziyeh infatti, secondo lo studioso polacco Peter Chelkowski, ha ripreso dalle cerimonie i costumi, gli elementi di scena e l’elemento dinamico, e dalle rowze-khwâni la recitazione e l’utilizzo di un copione (Chelkowski 1979, p.4)
Sarebbe scorretto pensare che solo in epoca safavide ci siano state delle manifestazioni religiose o delle recite legate al compianto per la morte dell’imam Husayn e dei suoi seguaci: basti pensare al caso dei tawwābun (“penitenti” in arabo) nel 681 in Iraq, o alle narrazioni recitate dai qorrāʾ nel X secolo, durante il califfato abbaside (http://www.iranicaonline.org/articles/tazia). Tuttavia furono le processioni e le rowze-khwâni d’epoca safavide ad essere caratterizzate da quella particolare teatralità che connotò poi la ta’ziyeh. Questo è confermato anche da una serie di descrizioni fornite da alcuni viaggiatori d’origine europea, fra cui è importante menzionare l’italiano Pietro Della Valle (1586-1626), noto per i resoconti dei suoi viaggi in Asia. L’autore, infatti, sottolinea come i fedeli non si limitassero a compiere atti di automortificazione e di pentimento, come è sempre stato nei rituali legati alla commemorazione di Muharram: spesso infatti costituivano dei gruppi che, armati di bastone, lottavano tra di loro ad imitazione dei guerrieri di Kerbala. Questo è ben evidente quando Della Valle scrive: “Vanno similmente accompagnando queste cose tutti gli uomini delle vicinanze, con lunghi e grossi bastoni in mano per combattere con quelli delle altre processioni se s’incontrano; e non solo per la precedenza, ma anche per rappresentar, come io credo, la zuffa in che fu morto Hussein; e tengono per certo, che chi di loro morisse in quella briga, morendo per Hussein, anderebbe diritto in paradiso. Anzi dicono di più, che in tutti i giorni dell’asciur, le porte del paradiso stanno sempre aperte, e che tutti i maomettani che muoiono in quei giorni, vi vanno subito calzati e vestiti. Veda V.S. se son matti” (Della Valle 1843, pp.551-552). Un’altra testimonianza altrettanto importante è quella del famoso mercante e viaggiatore olandese Cornelius le Bruyn (1605–1689), il quale descrive queste cerimonie come dei veri e propri tableaux vivants, i cui vari partecipanti rappresentano, mimando e usando dei materiali di scena, le varie vicende relative al massacro di Kerbala: “[…] Poi cinque altri cammelli, su ognuno dei quali c’erano circa sette od otto bambini, quasi nudi (rappresentanti i figli di Husayn e dei suoi seguaci, portati alla corte del califfo Yazid a Damasco come prigionieri di guerra, n.d.a) in gabbie di legno, e due insegne che li seguivano. In seguito apparve una bara aperta contenente un cadavere, seguito da un altro coperto di bianco e alcuni cantanti (Le Bruyn 1718, p.218).
Come si è già detto, per lo sviluppo della ta’ziyeh furono fondamentali anche le rowze-khwâni, ancora oggi messe in scena in contemporanea con le recite relative agli eventi di Kerbala.
Esse, come oggi, si svolgevano nella seguente maniera: nelle takiyeh (Con questo termine oggi si definisce la struttura preposta ad ospitare la messa in scena di una ta’ziyeh), luoghi adibiti al compianto collettivo per Husayn, l’encomiatore (māddah) elogiava il Profeta e gli imam per le loro qualità, con un tono di voce basso e lentamente, in modo tale da sollecitare la risposta degli astanti. In seguito interveniva il vâ’ez (“predicatore”), che si occupava di trattare temi religiosi e filosofici e poi rammentare le sofferenze degli sciiti con un canto funebre, detto mosibat. In tal modo il māddah e il vâ’ez eccitavano gli animi dei fedeli per renderli predisposti al canto delle vicende di Kerbala da parte del cantastorie, il rowze-khwân. Infatti il canto di questi era veloce ed era fatto ad alta voce, intervallato in alcuni momenti da sospiri e pianti, in modo tale da suscitare nei fedeli un intenso stato emozionale. In seguito s’inseriva un coro di giovani, che si alternava con la narrazione in musica del rowze-khwân, mentre il pubblico piangeva, mostrava cordoglio battendosi il petto (sine zani) e si flagellava con delle catene (zanjeer zani). La riunione religiosa terminava poi con i canti funebri (nowheh), che potevano durare svariate ore (Chelkowski 2010, p.266).
Come già detto in precedenza, nella seconda metà del XVIII secolo, dalla fusione degli elementi relativi alle manifestazioni religiose e alle recite nacque il genere teatrale conosciuto come ta’ziyeh. Uno dei primi autori stranieri che descrisse in maniera più dettagliata una ta’ziyeh come la conosciamo oggi è stato l’autore inglese William Franklin che, nel suo resoconto Observation made on a tour from Bengal to Persia del 1786 descrive la rappresentazione incentrata sul matrimonio mai consumato tra Fatima, figlia dell’imam Husayn, e suo cugino Qassem, figlio del secondo imam Hassan, che morì nella piana Kerbala il giorno dopo il suo matrimonio (Franklin 1890, p. 249-250). In quest’epoca la ta’ziyeh era considerata una forma d’arte meramente popolare, che non destava l’interesse della classe dirigente e degli intellettuali, che anzi spesso la consideravano come di poco conto, attitudine che spesso mantennero tra il XVIII e il XX secolo. Al contrario essa era citata in molte fonti europee in epoche diverse. Questa sottovalutazione può essere sicuramente annoverata tra le ragioni per cui è rimasto un numero esiguo di libretti originali delle rappresentazioni.
Una notevole eccezione a questa tendenza fu quello che è considerato dagli studiosi il periodo d’apice del successo di questo genere teatrale, ovvero il governo del sovrano della dinastia Qajar, Naser al-Din Shah (1848-1896), periodo nel quale questo genere drammatico raggiunse livelli qualitativi elevatissimi (Shahidi 1979,p.41) destando l’attenzione dei visitatori stranieri, fra cui è importante menzionare il diplomatico americano Samuel Benjamin, che nel 1887, assistendo in Persia ad alcune rappresentazioni, definì la ta’ ziyeh“ uno degli eventi religiosi più degni di nota del nostro secolo”(Benjamin 1887, p. 365). Lo shah Naser era interessato a mostrare un paese legato sì alla tradizione, ma che al tempo stesso apparisse aperto alla modernizzazione e alla cultura europea; l’esempio più evidente di questa politica è la costruzione della Takiyeh Dowlat, un teatro preposto alle ta’ziyeh khani, la cui struttura prende esempio, anche se molto alla lontana, dalla Royal Albert Hall di Londra (Peterson 1979, p. 69).
Questo approccio positivo alla ta’ziyeh da parte della classe dirigente s’interruppe nel 1925, quando salì al trono Reza Shah Pahlavi, che nel 1933 ne vietò le rappresentazioni. Il motivo del bando è che queste rappresentazioni sceniche sacre, data la loro popolarità, richiamavano molte persone, e quindi erano una buona occasione per gli oppositori politici al regime dello shah per propagandare le loro idee (Avery 1965, pp. 290-291). Un altro fattore rilevante che influenzò decisamente la proibizione fu la volontà di Reza Shah Pahlavi di presentare all’estero l’Iran come un paese moderno volto all’Occidente, slegato da tradizioni a suo parere retrograde e rozze. La politica di contrasto a tale tradizione fu portata avanti dal figlio e successore Muhammad Reza Pahlavi: la prova di questo è la demolizione del Takiyeh Dowlat nel 1948: al suo posto fu fatta costruire una banca governativa (Malekpour 2004, p. 144). Tuttavia fu sotto il governo Pahlavi che l’Iran ospitò il Festival internazionale delle arti di Shiraz dal 1967 al 1976, festival in cui venivano presentati vari tipi di teatro sviluppatisi in patria e all’estero. Fra i vari spettacoli rappresentati in quegli anni è degna di nota la ta’ziyeh di Hurr diretta dai registi persiani Parviz Sayyed e Khojasteh Kia nel 1967 (Savarese 2012, p. 313). Fu la prima volta, dopo le severe limitazioni imposte nel ’33, che la ta’ziyeh fu riportata in scena di fronte ad un grande pubblico, anche se con moltissime limitazioni. Infatti, questa scelta di Muhammad Pahlavi di apertura nei confronti di questa tradizione non si deve considerare resipiscenza, bensì una forma di propaganda utile al proprio governo, fortemente criticato all’estero e in patria per la scarsa liberalità e la feroce repressione del dissenso.
La ta’ziyeh non ha sempre avuto il favore del clero sciita, ma se in alcuni periodi è stata osteggiata, altri i religiosi non si sono mostrati contrari a questa forma d’arte: l’alim‘ Mirza Abu al Qasem Qomi, nel suo lavoro di diritto “Jame al shetat” del 1818, sostiene ad esempio che se l’interpretazione di un personaggio deve suscitare il pianto per le sventure dell’ahl al kisa (“gente del mantello in arabo”) {Questa definizione deriva da un hadith riportato da Muslim ibn Hajjaj (m. 875) nella sua raccolta Sahih al Muslim. In esso vi è riportato che Muhammad accolse sotto il suo mantello la figlia Fatima, il genero Ali e i due figli Hasan e Husayn, dicendo poi le seguenti parole:”Dio desidera solo rimuovere da voi le Ar-Rijs (“le azioni malvagie e i peccati”), o membri della famiglia, e purificarvi con una totale catarsi” (Muslim ibn Hajjaj 2007, vol. VI, p. 284, n. 6261). Questo episodio in alcuni testi è legato a quello della Mubahalah: Muhammad – essendo in disaccordo sulla natura divina di Gesù sostenuta dai cristiani di Najran, e sul fatto che non lo riconoscessero come profeta – propose di risolvere la questione con un’ordalia cui si sarebbero sottoposti i seguaci di Cristo da una parte ed egli stesso con Ali, Fatima e i nipoti Hasan e Husayn dall’altra. Entrambi i gruppi si sarebbero dovuti mettere sotto un mantello attendendo il responso divino. Gli uomini di Najran però, vedendo che il Profeta era così sicuro delle sue convinzioni da porre addirittura in pericolo persone a lui care e così sante, decisero di evitare il giudizio divino perché temevano per le loro vite (al-Mufid 2004, pp. 113-116; al-Biruni 1879, p. 332).}, tutto ciò deve essere ben accetto (Baktash 1979, p. 107; Aghaie 2004, p.17). Tuttavia, come già detto, egli fu contestato da molti suoi colleghi, soprattutto nel secolo successivo. Ancora, Mirza Muhammad Ali Mohtaj, in un sermone del 1886, manifestava il suo desiderio di rendere illegale la pratica recitativa mediante un decreto reale (ivi, p. 18). Tuttavia la scarsa attenzione verso questa tradizione culturale non è imputabile solamente al clero e alla classe dirigente: gli stessi autori dei copioni di questi drammi sacri trascrivevano le loro battute in un persiano sgrammaticato, oppure i testi si riducevano più che altro a semplici annotazioni (Rossi e Bombaci 1961, p. XVII). Il fatto che non si pensasse all’idea di rendere leggibili e comprensibili i copioni supporta l’idea che solitamente non ci fosse l’intenzione di pubblicarli e conservarli. Peraltro, spesso, questi canovacci venivano letti in scena da parte degli attori, e quelli analfabeti facevano addirittura finta di leggerli (Kermani 2016, p. 110). Questo atteggiamento nei confronti dei testi scritti drammatici ha fatto sì che quelli giunti fino a noi risultino molto deteriorati (Rossi e Bombaci 1961, p. XXVIII). Tuttavia, tra il XIX ed il XX secolo vari viaggiatori e studiosi stranieri, perlopiù europei, si interessarono a questo argomento e compilarono una serie di raccolte di testi. Tra di esse spiccano quella di Lewis Pelly (The miracle play of Hasan and Husain, 1879), e quella di Aleksandr Chodzko (Theatre persan, 1878). Quest’ultima è particolarmente importante perché è l’unica che raccoglie testi originali, mentre nel caso di Pelly sono riportate solo le traduzioni di narrazioni orali (Rossi e Bombaci 1961, p. XV). Il primo studioso che però ha compreso la reale importanza di questa forma di rappresentazione per gli studi d’iranistica è stato il diplomatico italiano Enrico Cerulli, il quale, durante la sua permanenza in Iran fra il 1950 ed il 1954, ha raccolto oltre mille manoscritti contenenti i testi drammatici, che ora fanno parte dell’omonima collezione donata da lui stesso alla Biblioteca Apostolica Vaticana.
Discorso ben differente si deve fare per gli studiosi iraniani che, come già detto, iniziarono a prendere in considerazione e valorizzare questa tradizione teatrale solo nel secolo passato: Mostawfi (1992), scrisse uno dei primi testi locali in cui si riportavano alcune notizie relative alla ta’ziyeh, come la costruzione del Takiyeh Dowlat, anche se questo tema nel testo non era così rilevante rispetto alla storia della dinastia Qajar. Questo testo è stato fondamentale per gli studiosi iraniani, perché forniva informazioni sulla ta’ziyeh tratte da resoconti di viaggiatori occidentali di cui non si era a conoscenza prima in Iran (Shahriari 2006, p.28). Prima di lui c’era stato Mehdi Forough, che nel 1952 aveva scritto un testo intitolato A Comparative Study of Abraham’s Sacrifice in Persian Passion Plays and Western Mystery Plays, in cui aveva analizzato e confrontato due testi – uno relativo al mistero della Passione cristiana e l’altro ad una ta’ziyeh – che trattavano entrambi il tema del sacrificio di Isacco da parte di Abramo. Fu il primo testo persiano ad analizzare nello specifico questo argomento in campo accademico (ibid.; Chelkowski 1979, p. 263).
Non solo gli studiosi e i direttori teatrali si sono occupati della ta’ziyeh: anche i registi di cinema, in particolar modo iraniani, si sono ispirati a questo genere teatrale, provando a mantenere in vita questa tradizione riutilizzando le tematiche e le tecniche proprie del dramma sacro persiano nell’ambito della cinematografia. Uno fra questi è il famoso regista Abbas Kiarostami, che in un’intervista rilasciata nel corso del festival di Cannes del 1997, sottolineava come per il film Il sapore della ciliegia (fig.3) si fosse ispirato all’assenza di realismo ricorrente nella ta’ziyeh (Shiraz 2011, p. 159).
Nel film l’assenza di realismo, caratteristica tipica del dramma sacro iraniano, si ravvisa in diversi momenti: ad esempio quando, improvvisamente, un tassidermista del Museo di scienze naturali di Teheran, il signor Bagheri, compare nell’auto del protagonista – che non reagisce in alcun modo – e discute con lui delle sue singolari richieste, dimostrandosi comunque disposto ad accettarle. Ciò avviene senza alcuna presentazione o nesso logico con quanto mostrato in precedenza, caratteristica ricorrente nei drammi sacri iraniani. Sono però gli ultimi fotogrammi del film Il sapore della ciliegia quelli che rendono più evidente l’assenza di realismo a cui si rifà il regista iraniano: nello specifico, ci si riferisce alla scena in cui vengono ripresi gli operatori di regia, autori delle riprese di tutto il film, che danno istruzioni agli attori che interpretano il ruolo dei soldati mentre marciano nella periferia di Teheran, così come già accaduto in altre parti del film, portando così lo spettatore a comprendere che quanto ha visto è solo una mera illusione.
L’assenza di realismo, ricorrente nelle opere del regista iraniano, non è però il solo aspetto del dramma sacro che egli ha utilizzato al fine di renderlo ancora attuale: l’autore ha infatti voluto anche ricreare l’atmosfera che si prova nell’assistere a questo dramma sacro, mostrare a chi non è sciita ed iraniano il coinvolgimento emotivo che i fedeli provano di fronte a ciò. Questo lo si può evincere da come ha messo in scena la ta’ziyeh, nello specifico quella incentrata sulla morte di Husayn, a Roma nel 2003, presso il teatro India. L’allestimento predisposto dal regista per questo spettacolo fu piuttosto particolare: esso prevedeva la collocazione di sei grandi schermi visibili dal pubblico romano, che mostravano le reazioni del pubblico iraniano, a sua volta intento ad assistere ad una rappresentazione (Vanzan e Chelkowski 2005, p. 25).
La ta’ziyeh, nonostante l’avvento di tecnologie e forme d’arte che fanno concorrenza a questo genere teatrale, è una tradizione ancora viva, non solo per gli intellettuali e gli artisti: i fedeli sciiti la sentono ancora attuale, come dimostra il fatto che nel tardo agosto 2020, quando ancora l’epidemia da Covid-19 era percepita come molto più pericolosa di oggi, il Governo concesse ai fedeli di svolgere tutte le pratiche religiose relative al compianto per Husayn ed i suoi seguaci, fra cui anche la ta’ziyeh. (Satoshi, Jamshidi e Rezaei, 2022, pp. 93-94).
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Filmografia
Kiarostami Abbas, Il sapore della ciliegia (Ta’m-e gīlās), 1997
Contributo scientifico concesso gentilmente dal dott. Adriano Mamone.
Facoltà di Lettere
Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e
Spettacolo
Corso di laurea in Discipline Etnoantropologiche
Sapienza. Università di Roma