LA MIGRAZIONE A MEDINA

Quando i meccani si resero conto che l’Islam aveva messo radici a Yathrib e ivi si stava espandendo, la loro animosità non conobbe limiti. I loro capi, come Abu Jahl, Abu Lahab, Abu Sufyan e Utbah si riunirono a Dar-un-Nadwa e, dopo aver rifiutato le proposte di imprigionare o bandire Muhammad, pianificarono di assassinarlo.
“E [ricorda] quando i miscredenti tramavano contro di te e per tenerti prigioniero o ucciderti o esiliarti! Essi tramavano intrighi e Allah tesseva strategie. Allah è il migliore degli strateghi [VIII; 30]”.
Al fine di sfuggire alla vendetta dei Banu Hashim, fu deciso che ogni clan avrebbe fornito un uomo, e che essi tutti insieme avrebbero aggredito il Profeta non appena fosse uscito di casa.
Ma Dio aveva già messo al corrente di tale intrigo il Suo Profeta, che a sua volta informò Alì, al quale ordinò di dormire nel suo letto. Il Profeta coprì Alì con il suo mantello verde. Quando Alì ascoltò che la sua vita doveva essere il riscatto di quella del Profeta, egli subito si prostrò davanti a Dio per ringraziarLo di questo onore unico. Questa fu la prima sajdah di shukr (una prostrazione di ringraziamento e gratitudine) nell’Islam. Alì dunque si mise a dormire tranquillamente nel letto del Profeta mentre questi uscì di casa passando sotto il naso dei cospiratori. Uscendo di casa, infatti, egli recitò i primi versetti della surah Ya-Sin e gettò un pugno di polvere sulle loro teste. Nessuno di essi lo vide mai uscire. Il Profeta aveva inoltre ordinato ad Alì di restituire tutti i beni che gli erano stati affidati ai rispettivi proprietari. I politeisti dei clan quaraishiti pensarono per tutto il tempo che fosse davvero il Profeta quello che dormiva nel suo letto, aspettando ansiosamente di ucciderlo.
Il Profeta si recò sulla montagna di Thawr accompagnato da Abu Bakr ed entrò in una caverna nei pressi della sua sommità. Questo luogo si trova a circa cinque miglia da Mecca. Ci sono due versioni su come Abu Bakr arrivò ad accompagnare il Profeta. Una tradizione narra che il Profeta stesso si recò a casa di Abu Bakr e gli disse di accompagnarlo. L’altra tradizione invece narra che, quando il Profeta era già uscito di casa, Abu Bakr vi si recò trovandovi Alì al suo posto, il quale lo informò che il Profeta era già in viaggio per Medina. Abu Bakr uscì quindi a cercare il Profeta. La notte era buia, e quando riuscì ad avvicinarsi a lui, il Profeta pensò che qualche miscredente volesse attaccarlo. Cominciò quindi a camminare con passo più veloce finché il laccio di un suo sandalo non si sciolse e alcune dita del piede non si ferirono. Allora Abu Bakr lo chiamò e il Profeta, riconoscendo la sua voce, si fermò. Abu Bakr lo afferrò e gli chiese il permesso di accompagnarlo, e così continuarono il cammino insieme fino a raggiungere Thawr.
All’alba gli miscredenti irruppero nella sua casa, rimanendo sbalorditi quando nel letto vi trovarono Alì e non il Profeta. Subito si gettarono all’inseguimento seguendo le sue tracce fino all’imbocco della caverna. Essi però non pensarono di entrare e cercare al suo interno. Perché?
Non appena i fuggitivi entrarono nella caverna, un ragno vi costruì la ragnatela proprio all’ingresso e un paio di piccioni edificarono il loro nido all’imbocco della stessa nel buio della notte, e vi depositarono persino le uova. Furono proprio la regnatela e il nido con le uova a far pensare ai nemici assetati di sangue che Muhammad non poteva trovarsi nella caverna, perché ovviamente la ragnatela sarebbe stata distrutta e il nido con le sue uova danneggiato! Fu nel momento in cui essi erano vicinissimi all’imbocco della caverna che Abu Bakr iniziò a piangere, temendo che li avrebbero scoperti. Il Profeta però lo consolò dicendo: «Non ti affliggere, Allah è con noi [IX, 40]».
Essi lasciarono dunque Mecca nella prima notte del mese di Rabi’ul-Awwal (corrispondente al 15 o al 16 luglio del 622 d.C.) raggiungendo la caverna di Thawr prima dell’alba rimanendovi fino al 4 di Rabi’l-ul-Awwal. Nel quinto giorno cominciarono il loro viaggio verso Medina, e Abdullah ibn Uraqit al-Daylami fu incaricato di mostrare loro la via. Abu Bakr offrì per il viaggio una delle sue cammelle al Profeta, il quale pose la condizione che Abu Bakr accettasse il suo prezzo; la cammella fu quindi venduta per 900 dirham. Viaggiando attraverso rotte non frequentate, essi raggiunsero sani e salvi Quba (a circa due miglia da Yathib) nell’ottavo giorno del mese di Rabi’-ul-Awwal. Ivi il Profeta posò la prima pietra della moschea di Quba che è stata menzionata nel Corano come «la moschea fondata sulla devozione» (IX, 108). Dopo pochi giorni a Quba Alì si unì a loro e procedettero insieme verso Yathrib, entrandovi il venerdì sedicesimo giorno del mese di Rabi’ul-Awwal con un gruppo di seguaci che era andati loro incontro per dare il benvenuto al Profeta.
Questa fu l’Egira (hijrah) da cui prende l’avvio il calendario islamico, l’anno dell’Egira.
Il Profeta e il suo devoto gruppo di seguaci avevano pazientemente tollerato avversità, tirannia e oppressione indicibili per tredici anni, e alla fine dovettero abbandonare i loro cari e le loro case, rinunciando a ogni bene materiale che possedevano. Essi non avevano mai desiderato guadagni materiali e terreni, né avevano mai aspirato a una qualche posizione sociale prestigiosa o a un incarico politico o amministrativo rilevante. Il Profeta aveva inequivocabilmente detto ai meccani:
“Io non desidero né ricchezze né potere né posizioni di prestigio. Io sono inviato da Dio, il quale mi ha ordinato di annunciarvi liete notizie. Io vi trasmetto le parole del Signore. Io vi ammonisco. Se accettate il messaggio che vi porto, Dio vi sarà favorevole in questo mondo e nell’altro. Se rifiutate il mio ammonimento, pazienterò e lascio che Dio giudichi tra voi e me”.
I primi musulmani furono tormentati e perseguitati semplicemente perché credevano in Dio, il Signore dei mondi, e Lo adoravano senza associarGli alcun compagno o creatura. Essi non avevano esercitato alcuna costrizione, perché il Corano afferma:
“Non c’è costrizione nella religione. La Retta Via ben si distingue dall’errore. Chi dunque rifiuta l’idolo e crede in Allah, si aggrappa all’impugnatura più salda senza rischio di cedimenti. Allah è audiente, sapiente [II, 256]”.
Il Corano si appella solo alla coscienza interiore dell’uomo, alla ragione e all’intelletto. A ogni modo, la nuova religione era in netto e profondo contrasto con i culti praticati dai Quraish, che ere di osservanza e credenze avevano reso sacri ai loro occhi. Il Profeta predicò l’uguaglianza dell’uomo e sottolineò il fatto che solo sulla rettitudine e sul timor di Dio poggia la superiorità di uno sull’altro. I Quraish vedevano in questo appianamento delle distinzioni la fine della loro autorità e dei loro privilegi (come quello di essere i custodi della Ka’bah), della loro egemonia sociale e politica e dei loro vasti interessi in generale.
La nuova religione pose delle restrizioni e delle limitazioni alla libertà promiscua e sbrigliata assecondata nelle relazioni sociali. Essa annunciò la fine dei modi licenziosi, del piacere sensuale sregolato e delle orge alcoliche a cui i Quraish erano soliti abbandonarsi in lungo e in largo. Essa impose una disciplina spirituale sotto forma di preghiera, digiuno e continenza, e disapprovò l’avarizia, la cupidigia, la calunnia, la falsità, l’indecenza e altri vizi di cui la società era permeata. In breve, significò l’abbandono dei vecchi modi e l’adozione di una nuova visione della vita e del mondo basata sulla devozione a Dio, sulla semplicità e sul controllo dei sensi e delle passioni. L’opposizione dei meccani fu dura e violenta. Essi perseguitarono inesorabilmente i seguaci della nuova fede e resero loro la vita difficile, e alla fine il Profeta e i suoi seguaci dovettero abbandonare i loro cari e le loro case per un ambiente e delle condizioni a loro più congeniali. Ma il Profeta non invocò mai l’ira di Dio su di loro, e quando una volta gli fu chiesto da Khabbab, figlio di Arrat, di maledire i Quraish, il Profeta lo interruppe dicendo:
“Le persone passarono su quelli che sono stati tagliati e fatti a pezzi per la causa di Dio, ma essi non desistettero dai loro doveri. Dio realizzerà il suo piano fino a quando un viaggiatore andrà dal Sinai fino a Hadramaut non temendo altri che Dio”.
Quanto vera fu questa profezia!
Vivendo a contatto con gli ebrei, gli Aws e i Khazraj non erano estranei all’idea dell’unità e dell’unicità di Dio. Essi avevano ascoltato dagli ebrei che sarebbe arrivato un profeta. Alcuni di loro erano venuti a contatto con il Profeta stesso a Mecca, rimanendone profondamente impressionati. La delegazione che avevano inviato a Mecca era tornata completamente soddisfatta e aveva accettato l’Islam. I discepoli che avevano preceduto il Profeta stavano diffondendo il messaggio dell’Islam per tutta la città. A differenza dei meccani, gli abitanti di Yathrib non avevano così vasti interessi quali ostacoli lungo la via della loro accettazione della nuova religione. L’Islam aveva quindi già messo radici in Yathrib prima che vi arrivasse il Profeta su invito delle genti degli Aws e dei Khazraj, per cui non deve meravigliare che i suoi cittadini diedero al Profeta un caloroso benvenuto.
Il nome della città fu cambiato in Madinat-un-Nabi, la Città del Profeta (detta anche semplicemente Medina). L’Islam cancellò l’antica inimicizia tra le tribù dei Aws e Khazraj, alle quali fu dato il titolo onorifico di «Ansar» (aiutanti, sostenitori). Ai quarantacinque emigranti meccani fu dato invece il nome di «Muhajirun» (esiliati). Fu intrapresa la costruzione di una moschea detta Masjid-un-Nabi (moschea del Profeta), a cui il Profeta volle partecipare come un operaio qualsiasi. In breve tempo fu edificata una semplice e austera moschea, con mura di mattoni senza fondamenta, tronchi di alberi di palma come pilastri e una copertura di foglie di palma. Adiacenti a essa vennero edificate, con gli stessi materiali, alcune stanze, e quando furono completate, il Profeta, che nel frattempo viveva con Abu Ayyub, si trasferì in una di esse.
Le porte delle case di alcuni suoi compagni si aprivano verso la moschea (Masjid-un-Nabi), ma il Profeta ordinò che tutte queste porte, eccetto quella di Alì, venissero murate. Quando i compagni sollevarono alcune obiezioni contro questo ordine, il Profeta subito si alzò e, indirizzandosi a loro, dopo aver pregato Dio, disse:
“In accordo al decreto di Dio, vi ho ordinato di murare tutte le porte e ad Alì di tenere la sua aperta. La vostra rimostranza non è gradita. Io non apro né chiudo nessun porta di mia spontanea volontà. Ho solo messo in atto ciò che mi è stato ordinato da Dio”.
I Muhajirun avevano bisogno di un sussidio significativo. Per far fronte alla loro sicurezza economica, e anche per siglare accordi fraterni tra loro e gli Ansar, il Profeta unì ogni Muhajir con un Ansar in un patto di fratellanza che divenne ancora più prezioso e durevole del semplice legame di sangue. Secondo tale contratto gli Ansar volontariamente dividevano a metà con i rispettivi fratelli tutto ciò che guadagnavano e possedevano. È a questa unificazione di interessi che il Corano fa riferimento nel seguente passo:
“In verità coloro che hanno creduto e sono emigrati, e hanno lottato con i loro beni e le loro vite per la causa di Allah e quelli che hanno dato loro asilo e soccorso sono alleati gli uni agli altri [VIII, 72]”.
I Muhajirun erano ansiosi di non rimanere un peso per i loro fratelli, per cui presto molti di loro decisero di darsi da fare commerciando e procacciando affari. Nel corso del tempo furono completamente riabilitati e in pochi anni riuscirono a non aver più bisogno di alcun supporto finanziario. Fu allora che venne rivelato il seguente versetto:
“Coloro che hanno creduto, sono emigrati e hanno combattuto sulla via di Allah; quelli che hanno dato loro asilo e soccorso, loro sono i veri credenti: avranno il perdono e generosa ricompensa [VIII, 74]”.
A Medina l’Islam aveva all’inizio affrontato serie difficoltà. Pericoli lo minacciavano da tutti i lati, ed esso doveva combattere contro grandi disuguaglianze per la mera sopravvivenza. Alcune delle battaglie a cui i musulmani furono costretti erano ispirate da motivi politici, altre erano il risultato della diretta opposizione alla nuova fede e agli sforzi disperati che i suoi nemici esercitavano per abbattere l’Islam prima che riuscisse a stabilirsi saldamente. Altre difficoltà vennero dalle abitudini predatorie e guerrafondaie delle tribù nomadi che vagavano intorno alla città, e dall’insicurezza e dalla illegalità prevalenti nel paese in generale.
È opportuno quindi analizzare e comprendere le condizioni politiche dell’Arabia di quel tempo.
Gli arabi appartenevano tutti ad un unico ceppo razziale, ma la storia non ricorda che essi fossero stati mai uniti in una sola nazione. Erano infatti divisi in tribù e clan, ognuno avente il proprio capo o condottiero. Essi, senza dubbio, parlavano la stessa lingua, ma ogni tribù seguiva una differente variante dialettale. Di fatto, anche la religione non era un fattore unificante. Quasi ogni casa aveva il suo proprio dio, e le tribù avevano le proprie supreme divinità. Nel sud vi erano i piccoli principati dello Himyar, di Awza e Aqyal. Al centro e al nord dell’Arabia vivevano le tibù di Bakr, Taghlib, Shaiban, Azd, Qudha’ah, Khandaf, Lakhm, Juzam, Banu Hanifa, Tay, Asad, Hawazin, Ghaftan, Aws, Khazraj, Thaqif, Quraih e altre minori. Tutte queste tribù erano spesso e volentieri impegnate in intense guerre fratricide. Le tribù di Bakr e Taghlib, per esempio, si combatterono per oltre quaranta anni. Vendette di sangue incrociate rovinarono intere tribù dello Hadhramaut (Yemen orientale). Gli Aws e i Khazraj erano ormai spossate da una guerra infinita, e la cosiddetta Guerra di Fijar tra i Banu Qais e i Quraish continuava a protrarsi nel tempo.
Se un qualche membro di una tribù veniva ucciso, la tribù si considerava in diritto e in dovere di cercare una vendetta non solo nei confronti dell’assassino, ma anche della tribù a cui quest’ultimo apparteneva. Dal momento che non esisteva nessuna organizzazione o sistema per sedare e regolamentare queste dispute, questa continua astiosità non poteva che portare a faide furiose, che potevano durare anche per generazioni. La forza, la foga e l’alacrità tribali erano le uniche garanzie di una sicurezza comunque precaria. Il deserto e le colline erano le dimore di fiere tribù nomadi che vivevano largamente di saccheggi e rapine, a cui si accompagnava il commercio quale fonte principale di sostentamento. Solo pochi mesi all’anno erano considerati sacri: le vendette e le ostilità reciproche erano sospese al fine di permettere l’annuale pellegrinaggio a Mecca e le attività commerciali nella città di Ukaz. Ma persino
questa convenzione veniva spesso violata per andare incontro alle esigenze di specifiche tribù. Solo il recinto della Ka’bah era considerato sacro e inviolabile, presso il quale non era permesso versare sangue. È a questo stato di cose che il Corano pone attenzione:
“Non vedono forse che abbiamo dato loro un [territorio] inviolabile, mentre tutt’attorno la gente è depredata? [XXIX, 67]”.
Le condizioni generali nel paese erano così insicure che ancora nel 5 d.H. la potente tribù di Abdul-Qais, del Bahrain, aveva paura di addentrarsi nello Hijaz tranne che nei mesi sacri. Anche le carovane che andavano o venivano dalla Siria a volte venivano attaccate in pieno giorno. Anche le terre da pascolo dei musulmani venivano a volte depredate. Sebbene le condizioni erano considerevolmente migliorate da allora, la rotta da Medina a Mecca non fu definitivamente sicura fino alla caduta di Mecca.
Mentre le condizioni interne del paese erano così caotiche e conflittuali, i pericoli provenienti dall’esterno non erano meno considerevoli. L’impero persiano aveva esteso i propri domini fino alle fertili province dello Yemen, dell’Oman e del Bahrain, stabilendo su di essi la propria sovranità. I romani avevano occupato la Siria, e i Ghassan e alcune altre tribù arabe che avevano abbracciato il cristianesimo erano divenuti loro feudatari. I romani inoltre avevano espulso gli ebrei dalla Siria e dalla Palestina nel II secolo d.C. Questi ebrei erano quindi emigrati a Medina e nei suoi sobborghi, ove avevano costruito imponenti fortezze in vari luoghi, tra cui la stessa Medina, Khaybar, Taima, Fadak e altri luoghi. Essendo prosperi, gli ebrei tendevano a essere estremamente invidiosi del benessere degli altri popoli e negli affari commerciali erano fortemente inclini al risentimento. Credevano di essere il “popolo eletto” da Dio, e la loro condotta era solitamente caratterizzata da orgoglio e arroganza, intensificati dal sentimento di essere al sicuro all’interno di queste loro formidabili fortezze.
Fu durante questo periodo che il Profeta iniziò la sua grande missione. Per preparare il terreno e il clima appropriati, il primo passo da compiere era quello per unire gli Ansar ai Muhajirun.
Il Profeta non solo saldò gli Ansar e i Muhajirun in una Fratellanza, ma si pose l’obiettivo di fondare una società stabile, un commercio comune basato sull’uguaglianza dei diritti e su un concetto di umanità e fratellanza universale. Garantendo uguaglianza di diritti e di status così come libertà di religione e di coscienze agli ebrei, li invitò a entrare in un patto con i musulmani. Egli stilò una Carta che è stata così riprodotta dallo storico Ibn Hisham:
“Col Nome di Dio, Clemente e Misericordioso. Garanzia da parte di Muhammad, il Profeta, ai credenti, siano essi dei Quraish o di Yathrib, e a tutti gli individui di qualsivoglia origine che hanno fatto causa comune con essi, che tutti questi costituiranno una sola nazione”.
Quindi, dopo aver regolamentato il pagamento del diyah (prezzo di sangue) da parte dei vari clan e fissato alcune sagge norme riguardanti i reciproci doveri privati dei musulmani, il documento così continuava:
“Lo stato di pace e di guerra accomunerà tutti i musulmani; nessuno tra loro avrà il diritto di concludere una pace con, o dichiarare una guerra contro, i nemici dei suoi correligionari. Gli ebrei che entrano in questa alleanza saranno protetti da tutti gli insulti e da tutte le vessazioni, essi avranno un eguale diritto con la nostra stessa gente rispetto alla nostra assistenza e alle nostre buone funzioni. Gli ebrei dei vari gruppi di Awf, Najjar, Harith, Jashm, Tha’labah, Aws e tutti gli altri domiciliati a Yathrib formeranno con i musulmani una nazione composita. Essi praticheranno la loro religione liberamente così come i musulmani. I clienti e gli alleati degli ebrei godranno della stessa sicurezza e libertà. I colpevoli saranno perseguiti e puniti. Gli ebrei si uniranno ai musulmani nel difendere Yathrib (Medina) contro tutti i nemici. L’interno di Yathrib sarà un luogo sacro per tutti coloro che accettano Carta. I clienti e gli alleati dei musulmani e degli ebrei saranno rispettati come i titolari. Tutti i musulmani aborriranno chiunque sia colpevole di un crimine, una ingiustizia o disordine. Nessuno sosterrà il colpevole, anche se può essere il suo parente più prossimo”.
Poi, dopo altri provvedimenti riguardanti l’organizzazione e l’amministrazione interna dello stato, questo straordinario documento si conclude così:
“Tutte le future dispute tra coloro che accettano questa Carta dovranno fare riferimento alla fine, dopo che a Dio, al Profeta”.
Gli ebrei di Medina accettarono il Patto. Dopo qualche tempo, vi aderirono anche le vicine tribù ebraiche dei Banu Nadir e Banu Quraizah. In realtà, come dimostreranno gli eventi successivi, questa adesione era solo un espediente. Da parte loro non vi era alcun cambiamento nel loro cuore, ed essi segretamente continuavano a nutrire la stessa ostilità nei confronti degli Aws e dei Khazraj, e guardavano allo sviluppo della confederazione dei musulmani con grande sconcerto e animosità. Nel corso del tempo essi cominciarono a insultare i musulmani e ad abusare di loro, scontrandosi frequentemente con loro e ricorrendo alla minaccia e alla sedizione. Alcuni membri degli Aws e dei Khazraj, che erano divenuti tiepidi convertiti, si avvicinarono a loro: i cosiddetti munafiqin (ipocriti). Questi erano guidati da Abdullah ibn Ubay che aveva i suoi propri disegni per diventare governatore di Medina e, insieme agli ebrei, divennero una costante fonte di pericolo per la neonata religione e per tutti i suoi aderenti. Gli ebrei, che avevano legami commerciali con i Quraish di Mecca, cospirarono con loro per sradicare l’Islam prima che riuscisse ad assumere proporzioni troppo grandi. Come capo della religione, e «al contempo generale in un tempo di guerra quasi persistente», Muhammad era il custode delle vite e della libertà della gente. La stessa esistenza dell’Islam era in serio pericolo. L’Islam predica la fratellanza del genere umano, insiste sulla tolleranza di tutte le religioni e di tutti i credi, comanda la gentilezza e la compassione, ma non predica il monachesimo, né permette ai suoi seguaci di sottomettersi alle forze della disintegrazione.
Essendo in lega con gli ebrei e i munafiqun, i meccani cominciarono a infastidire e a provocare i musulmani. Sotto la guida di Karz ibn Jabir al-Fahri, cominciarono ad attaccare gli stessi sobborghi di Medina, distruggendo alberi da frutto e portando via capi di bestiame. A Medina cominciarono a giungere notizie che i meccani stavano stringendo alleanze con altre tribù per lanciare un massiccio attacco contro i musulmani. Muhammad inviò una piccola missione presso queste tribù per contrattare alleanze e patti. Fu siglato un accordo con i Banu Zamra, i cui termini erano i seguenti:
Questo è un documento di Muhammad, Messaggero di Dio, per i Banu Zamra. Le loro vite e i loro beni sono al sicuro. Se verranno attaccati da qualcuno, verranno sostenuti nella difesa tranne nel caso in cui essi stessi combattano contro la religione. In cambio, essi dovranno aiutare il Profeta quando questi li chiamerà.
Un patto simile venne concluso anche con i Banu Madlaj a DhulAshirah.
I Quraish avevano dal canto loro già inviato una lettera minatoria ad Abdullah ibn Ubay, capo della sua tribù, prima dell’arrivo del Profeta a Medina: “Tu hai dato rifugio al nostro uomo (Muhammad). Devi ucciderlo o espellerlo da Medina, altrimenti giuriamo che ti attaccheremo e, uccidendo tutti i maschi, cattureremo le vostre donne e ne godremo”.
L’attacco era considerato così imminente, e il piccolo gruppo di musulmani era in tale pericolo, che il Profeta era solito rimanere sveglio tutta la notte. Al-Darmi e al-Hakim al-Nishaburi ricordarono: «Quando il Profeta e i suoi compagni giunsero a Medina e gli Ansar li aiutarono, gli arabi decisero di attaccarli. I compagni del Profeta erano soliti dormire imbracciando le loro armi».
I Quraish erano estremamente furiosi per il fatto che Muhammad fosse sfuggito dalle loro mani, dopo aver messo in atto tutti preparativi per ucciderlo. Le notizie che l’Islam stava rapidamente espandendosi a Medina di certo non riappacificò i loro animi e non placò la loro ira e la loro ostilità. A Medina, d’altro canto, arrivavano notizie che i meccani stavano pianificando di attaccare i musulmani. Di conseguenza il Profeta decise di inviare diverse missioni esplorative e di ricognizione per cercare di carpire i disegni e i movimenti dei Quraish, e tenere sotto controllo le diverse rotte per provenire un attacco di sorpresa.
Una volta trenta musulmani (sotto il comando di Hamza, zio del Profeta), si imbatterono in un gruppo di circa trecento cavalieri (sotto il comando di Abu Jahl) a Saiful-Bahr. I meccani erano desiderosi di massacrare un piccolo gruppo di trenta uomini, ma Majd ibn Amr al-Juhni (che aveva un accordo con entrambi i gruppi) prevalse sulle due parti e li convinse a tornare indietro ai rispettivi luoghi. In tal modo si evitò la battaglia.
Qualche tempo dopo un gruppo di sessanta od ottanta musulmano, sotto il comando di Ubaidah ibn Harith (cugino del Profeta) raggiunse Rabigh e si imbatté in circa duecento cavalieri dei Quraish sotto il comando di Ikrimah ibn Abu Jahl (secondo altri di Mukriz ibn Hafs). I quraishiti questa volta diedero subito battaglia con archi e frecce. Poi qualcuno pensò che i musulmani non potevano essere giunti solo con questa piccola forza per affrontare un gruppo di guerrieri così superiori di numero, a meno che essi non fossero accompagnati da un grande esercito nascosto nei paraggi. Questo timore convinse dunque i quraishiti a cessare l’attacco.
Ancora, un piccolo gruppo composto da dodici uomini sotto il comando di Abdullah ibn Jahsh (cugino del Profeta) fu inviato a Nakhlah, una località tra Taif e Mecca, con ordini sigillati che dovevano essere aperti solo dopo due giorni di viaggio quale precauzione contro lo spionaggio, che era molto diffuso. Nella lettera, come riportata da al-Tabari nel suo Tarikh, vi era scritto: «Stazionate a Nakhlah; raccogliete informazioni sui progetti dei Quraish e comunicateli». Fu solo incidentalmente che il gruppo incontrò i commercianti meccani e che uno di essi, Amr ibn al-Hadhrami, venne ucciso tra le mani di Abdullah. La storia non riporta quale fu il motivo dello scontro tra i due gruppi, e chi dei due aveva provocato l’altro. Qualunque sia stata la causa, Abdullah agì andando oltre le istruzioni ricevute, e questo incidente aggravò la situazione.
A ogni modo, a parte questo isolato incidente, in nessuna delle numerose spedizioni riportate dagli storici arabi come saraya vi fu qualche scaramuccia o eventi di saccheggio o rapine. Esse furono inviate o per stringere alleanze con le tribù vicine, o in veste di pattuglie in ricognizione, in quanto, come detto, a Medina arrivavano notizie che i meccani avrebbero potuto attaccare da un giorno all’altro.

[brani tratti da: Allamah Rizvi, Il Profeta Muhammad, Irfan Edizioni – Per gentile concessione dell’Editore]

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