LA MATEMATICA
Nella prospettiva islamica la matematica è considerata la via d’accesso che porta dal mondo sensibile a quello intelligibile, la scala fra il mondo del mutamento e il cielo degli archetipi. L’unità, l’idea centrale dell’Islam, è un’astrazione dal punto di vista umano, anche se in sé è concreta. Rispetto al mondo dei sensi, anche la matematica è un’astrazione; ma, considerata dal punto di vista del mondo intelligibile, il «mondo delle idee» di Platone, è una guida alle essenze eterne, le quali sono esse stesse concrete. Come tutte le figure sono generate dal punto, e tutti i numeri dall’unità, così l’intera molteplicità proviene dal Creatore, che è Uno. Numeri e figure, se considerati in senso pitagorico – ossia come aspetti ontologici dell’Unità, e non semplicemente come pura quantità -, diventano veicoli per l’espressione dell’Unità nella molteplicità. La mente musulmana è stata perciò sempre attratta verso la matematica, come si può vedere non solo nella grande attività dei musulmani nelle scienze matematiche, ma anche nell’arte islamica.
Il numero pitagorico, che è la concezione tradizionale del numero, è la proiezione dell’Unità, un aspetto dell’Origine e del Centro che in un certo senso non lascia mai la sua sorgente. Nel suo aspetto quantitativo un numero può dividere e separare; nel suo aspetto qualitativo e simbolico esso, a ogni modo, reintegra la molteplicità nell’Unità. Esso è anche, in virtù della sua stretta connessione con figure geometriche, una “personalità”: per esempio, il tre corrisponde al triangolo e simboleggia l’armonia, mentre il quattro, che è connesso con il quadrato, simboleggia la stabilità. I numeri, considerati in questa prospettiva, sono come molti cerchi concentrici, i quali riecheggiano, in tanti modi diversi, il loro centro comune e immutabile. Essi non “progrediscono” esternamente, ma rimangono uniti alla loro sorgente grazie alla relazione ontologica che continuano sempre a conservare con l’unità. Lo stesso vale anche per le figure geometriche, ciascuna delle quali simboleggia un aspetto dell’Essere. La maggioranza dei matematici musulmani, come i pitagorici, non coltivò mai la scienza della matematica come un soggetto puramente quantitativo, né separò mai i numeri dalle figure geometriche, le quali concettualizzano la loro “personalità”. Essi sapevano anche troppo bene che la matematica, in virtù della sua polarità interna, era la “scala di Giacobbe” che, sotto la guida della metafisica, poteva condurre al mondo degli archetipi e all’Essere stesso, ma che separata dalla propria sorgente sarebbe divenuta invece il mezzo per discendere nel mondo della quantità, al polo che è sempre tanto più lontano dalla sorgente luminosa di ogni esistenza quanto più le condizioni della manifestazione cosmica lo permettono. Non può esserci “neutralità” da parte dell’uomo rispetto ai numeri: o egli si innalza al mondo dell’Essere attraverso la conoscenza dei loro aspetti qualitativi e simbolici, oppure discende attraverso di essi, in quanto meri numeri, al mondo della quantità. Quando la matematica fu studiata nel Medioevo, veniva considerato di solito il primo aspetto. La scienza dei numeri era, come scrissero i Fratelli della Purità, «il primo sostegno dell’anima da parte dell’Intelletto, e la generosa effusione dell’Intelletto sull’anima»; essa fu inoltre considerata «la lingua che parla di Unità e di trascendenza».
Lo studio delle scienze matematiche nell’Islam comprendeva quasi gli stessi argomenti del Quadrivium latino, con in più l’ottica e pochi altri argomenti secondari. Le sue discipline principali erano – come nel Quadrivium – l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica. La maggior parte degli scienziati e filosofi islamici era dotta in tutte queste scienze; alcuni, come Avicenna, al-Fārābī e al-Ghazzālī, scrissero importanti trattati sulla musica e sui suoi effetti sull’anima.
L’astronomia e la sorella astrologia, con la quale era quasi sempre associata (in arabo, come in greco, la stessa parola denota entrambe le discipline), furono coltivate per una molteplicità di ragioni: c’erano problemi di cronologia e di calendario; la necessità di trovare la direzione della Mecca e l’ora del giorno per le preghiere quotidiane; il compito di redigere oroscopi per principi e sovrani, i quali consultavano quasi sempre un astrologo per le loro attività; e, ovviamente, il desiderio di perfezionare la scienza del moto dei corpi celesti e di superare le sue incoerenze, in modo da conseguire la perfezione della conoscenza.
La tradizione principale dell’astronomia pervenne ai musulmani dai Greci attraverso l’Almagesto di Tolomeo. C’era comunque anche la scuola indiana, le cui dottrine concernenti l’astronomia, oltre che l’aritmetica, l’algebra e la geometria, erano incluse nei Siddhānta tradotti dal sanscrito in arabo. C’erano inoltre alcuni testi caldei e persiani, la maggior parte dei cui originali è andata perduta, oltre che una tradizione astronomica araba preislamica. Gli astronomi musulmani, come abbiamo già visto, fecero molte osservazioni, i cui risultati furono registrati in numerose tavole (zīj) più ampie di quelle antiche, e usate fino all’epoca moderna. Essi continuarono anche la scuola dell’astronomia matematica di Tolomeo, applicando la loro scienza perfezionata della trigonometria sferica al calcolo più esatto del moto dei cieli, nel contesto della teoria degli epicicli. Seguirono di solito una teoria geocentrica, pur essendo consapevole, come ci dimostra al-Bīrūnī, dell’esistenza del sistema eliocentrico. E come al-Bīrūnī riferisce, Abū Sa‘īd al-Sijzī costruì addirittura un astrolabio fondato sulla teoria eliocentrica.
L’influenza di idee indiane avrebbe avuto come conseguenza anche lo sviluppo e la sistematizzazione della scienza dell’algebra. Benché i musulmani avessero familiarità con l’opera di Diofanto, ci sono pochi dubbi sul fatto che l’algebra, come fu coltivata dai musulmani, abbia le sue radici nella matematica indiana, che essi sintetizzarono con metodi greci. Il genio dei Greci fu evidenziato nella loro espressione dell’ordine finito, del cosmo, e perciò di numeri e figure; la prospettiva della sapienza orientale si fonda sull’Infinito, la cui “immagine orizzontale” corrisponde al carattere “indefinito” della matematica. L’algebra, che è associata integralmente a questa prospettiva fondata sull’Infinito, era nata dalla speculazione indiana e raggiunse la maturità nel mondo islamico, dove fu sempre connessa alla geometria e dove conservò la sua base metafisica. Insieme all’uso di numerali indiani – noti oggi come «numeri arabi» -, l’algebra può essere considerata la scienza più importante che i musulmani aggiunsero al corpus della matematica antica. Nell’Islam le tradizioni della matematica indiana e greca si incontrarono e si unificarono in una struttura in cui algebra, geometria e aritmetica avrebbero posseduto un aspetto contemplativo, spirituale e intellettuale, oltre a quell’aspetto pratico e puramente razionale, che fu l’uni¬ca parte della matematica medievale a essere ereditata e sviluppata dalla posteriore scienza occidentale nota con lo stesso nome.
La storia della matematica nell’Islam comincia a rigore con Muhammad ibn Mūsā al-Khwārazmī, nei cui scritti si fusero le tradizioni matematiche greca e indiana. Questo matematico del III/IX secolo lasciò varie opere, fra cui la più importante è il Libro di compendio nel processo di calcolo per costrizione ed equazione, che esamineremo più avanti. Esso fu tradotto varie volte in latino, col titolo di Liber Algorismi, ossia «Libro di al-Khwārazmī»; esso divenne la radice del vocabolo «algoritmo».
Al-Khwārazmī fu seguito nello stesso secolo da al-Kindī, il primo filosofo islamico famoso che fosse anche un esperto matematico, che scrisse trattati su quasi ogni argomento della disciplina, e il suo discepolo Ahmad al-Sarakhsī, meglio noto per le sue opere sulla geografia, la musica e l’astrologia. Di questo periodo fu anche Māhānī, che continuò lo sviluppo dell’algebra e divenne particolarmente famoso per lo studio del problema di Archimede, e i tre figli di Shākir ibn Mūsā – Muhammad, Ahmad e æasan -, i quali sono anche chiamati i «Banu Mūsā». Essi furono tutti matematici ben noti, e Ahmad fu inoltre anche un esperto fisico.
L’inizio del IV/X secolo segna la comparsa di vari grandi traduttori, i quali furono anche matematici di vaglia. Particolarmente eminente fra loro fu Thābit ibn Qurrah, che tradusse le Coniche di Apollonio, vari trattati di Archimede e l’Introduzione all’aritmetica di Nicomaco, e fu egli stesso uno dei più grandi matematici musulmani. A lui va il merito di aver calcolato il volume di un paraboloide e di aver dato una soluzione geometrica ad alcune equazioni di terzo grado. Il suo contemporaneo Qusøā ibn Lūqā, che divenne famoso nella posteriore storia islamica come una personificazione della saggezza degli Antichi, fu anche un competente traduttore, e tradusse in arabo le opere di Diofanto e di Erone.
Fra gli altri matematici di vaglia del IV/X secolo si deve includere Abū’l-Wafā’ al-Buzjānī, il commentatore del Libro del compendio nel processo del calcolo per trasporto ed equazione, che risolse l’equazione di quarto grado x4 + px3 = q, per mezzo dell’intersezione di una parabola e di un’iperbole. A questo secolo appartengono anche Alhazen, di cui abbiamo già parlato, e i «Fratelli della Purità», che tratteremo fra poco. Essi furono seguiti da Abū Sahl al-Kūhī, un altro fra i più eminenti algebristi musulmani e autore delle Aggiunte al Libro di Archimede, che fece uno studio approfondito delle equazione trinomie.
Si potrebbe ricordare anche Avicenna fra i matematici attivi in quest’epoca, benché la sua reputazione sia molto più grande come filosofo e come medico che come matematico. Avicenna, come prima di lui al-Fārābī, elaborò la teoria della musica persiana del suo tempo, una musica che è sopravvissuta come una tradizione viva fino a oggi. Non è esatto dire che le loro opere siano un contributo alla teoria della «musica araba», dal momento che la musica persiana appartiene sostanzialmente a una differente famiglia musicale. Essa è assai affine alla musica degli antichi Greci – alla musica udita da Pitagora e da Platone -, anche se ha esercitato una qualche influenza sulla musica araba, oltre che una forte influenza sul flamenco, e se ha risentito a sua volta l’influenza del ritmo e della melodia della musica araba. Fu questa tradizione della musica persiana che Avicenna, e prima di lui al-Fārābī, teorizzarono nella forma di studio considerata allora una branca della matematica.
Avicenna fu contemporaneo del famoso al-Bīrūnī, che ci ha lasciato alcuni fra gli scritti matematici e astronomici più importanti del periodo medievale, e che condusse uno studio speciale di problemi come le serie numeriche e la determinazione del raggio della Terra. Anche il suo contemporaneo Abū Bakr al-Karkhī lasciò due opere fondamentali di matematica islamica, il Libro dedicato a Fakhr al-Dīn sull’algebra e i Requisiti per l’aritmetica.
Il V/XI secolo, che segna l’avvento al potere dei Selgiuchidi, fu caratterizzato da una certa assenza d’interesse per la matematica nelle scuole ufficiali, anche se in questo periodo apparvero numerosi grandi matematici. Essi furono guidati da ‘Umar Khayyām e una schiera di altri astronomi e matematici che lavorarono con lui alla revisione del calendario persiano. L’opera di questi matematici condusse infine alla feconda attività del VII/XIII secolo – quando, in seguito all’invasione mongola, lo studio delle scienze matematiche fu ringiovanito. La figura principale di questo periodo fu Nasīr al-Dīn al-Tusī. Sotto la sua direzione, come abbiamo visto precedentemente, molti scienziati, specialmente matematici, furono riuniti nell’osservatorio di Maragha.
Anche se, dopo il VII/XIII secolo, l’interesse per lo studio della matematica gradualmente diminuì, continuarono a fiorire importanti matematici, i quali risolsero nuovi problemi e scoprirono nuovi metodi e tecniche. Ibn Bannā’ al-Marrākushī, nell’VIII/XIV secoli, creò un nuovo approccio allo studio dei numeri, seguito un secolo dopo da Ghiyāth al-Dīn al-Kāshānī. Quest’ultimo fu il più grande matematico musulmano nel campo del calcolo e della teoria del numero. Egli fu il vero scopritore delle frazioni decimali e fece una determinazione esattissima del valore del pi greco, e scoprì anche molti nuovi metodi e tecniche per il calcolo. È sua la Chiave dell’ aritmetica (Miftaá al-áisāb), che è l’opera più fondamentale di questo tipo in arabo. Nel frattempo anche un contemporaneo di al-Kāshānī, Abū’l-æasan al-Bustī, che visse in Marocco, all’altro capo del mondo islamico, stava tracciando nuove vie nel campo dello studio dei numeri, e l’egiziano Badr al-Dīn al-Māridīnī stava componendo importanti trattati matematici e astronomici.
La rinascita safavide in Persia segna l’ultimo periodo di attività relativamente estesa nel campo della matematica, anche se poco di essa è nota al mondo circostante. Gli architetti delle belle moschee, scuole e ponti di quest’epoca furono tutti esperti matematici. Il più famoso di queste figure del X/XVI secolo attive nel campo della matematica fu Bahā’ al-Dīn al-‘Amilī. Nel campo della matematica i suoi scritti furono per lo più una rassegna e un compendio delle opere dei maestri anteriori; essi divennero i testi standard nelle varie branche di questa scienza dall’epoca in cui, nelle scuole ufficiali, lo studio della matematica fu limitato a una trattazione sommaria, lasciando lo studio più serio all’iniziativa individuale.
Un contemporaneo di Bahā’ al-Dīn al-‘Amilī, Mullā Muáammad Bāqir Yazdī, che fiorì all’inizio del X/XVI secolo, fece degli studi matematici originali. È stato affermato da alcuni matematici posteriori che egli fece anche una scoperta autonoma del logaritmo, ma quest’affermazione non è stata ancora pienamente investigata e dimostrata. Dopo Yazdī, la matematica rimase legata principalmente alla cornice delineata dai maestri medievali di questa scienza. Ci furono alcune figure occasionali, come la famiglia Narāqī di Kashan, del XII/XVIII secolo, i cui membri scrissero vari trattati originali, o Mullā ‘Alī Muhammad Isfahānī, che nel secolo XIII/XIX dette soluzioni numeriche per equazioni di terzo grado. Ci furono anche alcuni matematici indiani importanti. In generale, però, la forza speculativa della società islamica si volse quasi completamente alle questioni di metafisica e di gnosi; la matematica, se si prescinde dal suo uso nella vita quotidiana, svolse essenzialmente la funzione di scala al mondo intelligibile della metafisica. Essa assolse così la funzione che i Fratelli della Purezza e molti altri autori anteriori avevano considerato la sua vera raison d’être.
Per riassumere i risultati conseguiti dalla matematica islamica, possiamo dire che i musulmani svilupparono prima di tutto la teoria dei numeri nei suoi aspetti sia matematico sia metafisico. Essi generalizzarono il concetto di numero oltre quello che era noto ai Greci. Svilupparono anche nuovi potenti metodi di calcolo numerico, che raggiunsero il loro culmine più tardi con Ghiyāth al-Dīn al-Kāshānī nei secoli VIII/XIV e IX/XV. Si occuparono inoltre di frazioni decimali, di serie numeriche e di branche affini della matematica connesse ai numeri. Svilupparono e sistematizzarono la scienza dell’algebra, pur conservandone sempre il legame con la geometria. Continuarono l’opera dei Greci nella geometria piana e solida. Infine svilupparono la trigonometria, sia piana sia solida, elaborando tavole precise per le funzioni e scoprendo molte relazioni trigonometriche. Inoltre, benché questa scienza fosse coltivata fin dal principio in congiunzione con l’astronomia, essa fu perfezionata e trasformata per la prima volta in una scienza indipendente da Nasīr al-Dīn al-Tūsī nella sua opera famosa Figura della secante, la quale rappresenta uno fra i maggiori risultati conseguiti dalla matematica medievale.
I Fratelli della Purità, la cui identità storica rimane ancora dubbia, erano un gruppo di studiosi, probabilmente di Bassora, che nel IV/X secolo produsse un compendio delle arti e delle scienze in 52 lettere. Esiste inoltre la Risālat al-jāmi‘ah, che compendia gli insegnamenti delle Epistole. Il loro stile chiaro e l’efficace semplificazione di idee difficili resero le loro Epistole molto popolari, facendo sorgere così molto interesse per le scienze filosofiche e naturali. Le simpatie del Fratelli della Purità andavano decisamente all’aspetto pitagorico-ermetico dell’eredità greca, com’è evidente soprattutto nelle loro teorie matematiche, le quali esercitarono una grande influenza nei secoli posteriori, particolarmente tra i circoli sciiti. Come i pitagorici, essi enfatizzarono l’aspetto simbolico e metafisico dell’aritmetica e della geometria, come si può desumere dalla seguente selezione dei loro scritti.
Si può dire che l’algebra abbia avuto origine con la celebre opera di Muáammad ibn Mūsā al-Khwārazmī Libro di compendio nel processo di calcolo per costrizione ed equazione (Kitāb al-mukhtaöar fī al-jabr wa’l-muqābalah), in cui fu usata per la prima volta la parola araba al-jabr, che significa «costrizione», e anche «ripristino». Da questa parola sarebbe derivato, secondo alcuni autori, il vocabolo «algebra». Inoltre il libro di al-Khwārazmī sull’aritmetica, che fu più tardi tradotto in latino insieme alla sua opera sull’algebra, contribuì più di qualsiasi altro testo alla diffusione del sistema di numerazione indiano sia nel mondo islamico sia in Occidente.
Il nome di ‘Umar Khayyām è divenuto molto familiare in Occidente grazie alla traduzione inglese molto bella, anche se talvolta libera, delle sue Rubā‘īyāt o Quartine (Quatrains) a opera di Fitzgerald [1859]. Al suo tempo Khayyām era noto però come metafisico e come scienziato più che come poeta, e oggi in Persia è ricordato soprattutto per le sue opere matematiche e per aver partecipato con altri astronomi all’elaborazione del calendario solare jalāli, che è stato usato da allora fino a oggi.
Al suo tempo egli era noto non soltanto come maestro delle scienze matematiche e come seguace della filosofia di ispirazione greca, e specialmente della scuola di Avicenna, ma anche come un sufi. Pur essendo stato attaccato da talune autorità religiose, e anche da certi sufi che desideravano presentare il sufismo sotto un aspetto più essoterico, Khayyām dev’essere considerato uno gnostico, dietro il cui apparente scetticismo c’è la certezza assoluta dell’intuizione intellettuale. La sua adesione al sufismo è dimostrata dal fatto che ha assegnato ai sufi il posto più alto nella gerarchia dei possessori di conoscenza.
In Khayyām si uniscono varie prospettive dell’Islam. Egli fu sufi e poeta, oltre che filosofo, astronomo e matematico. Sfortunatamente, a quanto pare scrisse poco, e anche di quel poco alcune opere sono andate perdute. Nondimeno, le opere rimaste – che includono, oltre alla sue poesie, trattati sull’esistenza, la generazione e la corruzione, la fisica, la totalità delle scienze, la bilancia, la metafisica, e inoltre opere matematiche formate da ricerche sugli assiomi di Euclide, sull’aritmetica e sull’algebra – sono una prova sufficiente della sua universalità. L’Algebra di Khayyām è fra i testi matematici più notevoli del periodo medievale. Essa si occupa di equazioni cubiche, che classifica e risolve (di solito geometricamente), e conserva sempre la relazione fra le incognite, numeri e forme geometriche, mantenendo così il legame fra la matematica e il significato metafisico implicito nella geometria euclidea.