La Storia dell’arte dell’Iran

PRIMA PARTE

L’ARTE DELL’IRAN PREISLAMICO

L’ARTE SASANIDE

La figura di Ardashir

La regione del Fars, pur facendo parte dell’impero, riuscì a mantenere in epoca partica un governo indipendente che seppe preservare l’eredità zoroastriana e la tradizione iranica degli Achemenidi. Nell’ultimo secolo di dominazione arsacide, la regione venne governata da un certo Babak, che rivendicava la discendenza dalla grande figura religiosa e politica di Sasan, uno dei superstiti della dinastia achemenide. Egli si fece carico della guida politica e religiosa della gente del Fars, facendo di Estakhr, nelle vicinanze di Persepoli, la sede del governo. Cominciò a battere moneta a proprio nome, rimanendo solo formalmente tributario del potere arsacide. Suo figlio Ardashir, che in antico persiano si pronunciava Artakhshir, mise in piedi gradualmente un proprio esercito, espandendo il territorio sotto il suo controllo, conquistando la regione di Kerman e annettendosi tutto l’Iran meridionale. Alla morte del padre, in qualità di capo religioso e re delle due grandi regioni del Fars e di Kerman, spostò la capitale da Darabgerd, che al tempo di suo padre era il centro della provincia di Estakhr, a Ghur, nella zona dell’attuale Firuzabad, facendovi edificare un grande e magnifico palazzo come sua residenza. Artabano, che secondo la tradizione era il padre della sposa di Ardashir, ne fece oggetto di biasimo e in una lettera gli scrisse: “O sventurato, perché hai osato costruirti un tale palazzo reale?” Questa irrispettosa protesta di Artabano determinò l’inasprirsi dell’inimicizia tra i due e una guerra nella quale Artabano fu sconfitto e Ardashir ne ereditò il trono. Da questo momento in avanti, Ghur venne chiamata “Lo splendore di Ardashir”. Ardashir nel 222 entrò a Ctesifonte, la capitale arsacide sulle rive del Tigri, e qui venne incoronato ufficialmente. È possibile che questa incoronazione sia avvenuta dopo la vittoria su Artabano a Naghsh-e Rajab, tra Estakhr e Persepoli, e sia la stessa ritratta nei maestosi rilievi della gola fatte incidere da Ardashir e dai successori di Shapur I.
Negli anni che seguirono, Ardashir conquistò la Media portando i suoi eserciti fino in Armenia e in Azerbaijan. Dopo alcuni insuccessi iniziali, riuscì a conquistare uno dopo l’altro i territori del Khorasan, del Sistan, di Marv e della Khorasmia. Il re di Kushan, che regnava su Kabul e sul Panjab, inviò presso di lui ambasciatori, dichiarandosi pronto a obbedire ai sui ordini. In quel momento, il territorio sotto la sua giurisdizione comprendeva tutto l’attuale Iran, l’Afghanistan, il Balucistan, la piana di Marv e Khiva, fino alla Transoxiana a nord, e Babilonia e l’Iraq a ovest. Così, cinque secoli e mezzo dopo la caduta dell’impero achemenide, sorse in Oriente un altro impero, iranico sotto tutti i punti di vista, destinato a scontrarsi con Bisanzio, anzi ad esserne l’arcinemico.
Ardashir, che riuniva in sé capacità politica, genio militare e fede religiosa, fu una personalità impavida e impetuosa, oltre che un grande promotore delle tradizioni religiose e culturali nazionali. Sotto di lui, lo zoroastrismo si affermò su tutto il territorio come fede nazionale. I fedeli di questa religione erano divenuti sempre più influenti in epoca arsacide, tanto che Vologese aveva fatto raccogliere tutti i testi dell’Avesta fino ad allora sparsi, compilandone il canone. Ardashir fece di questa fede la religione ufficiale, proclamandosene capo. Inviò in tutte le regioni dell’impero dei sacerdoti, rappresentanti politico-religiosi, che controllassero la correttezza degli affari religiosi e amministrassero la giustizia. Centralizzando l’amministrazione politica, militare e burocratica, egli cercò di trarre l’Iran fuori dalla condizione di frammentazione tribale ereditata dagli Arsacidi. L’esercito passò direttamente sotto il suo comando e le uniche occasioni in cui egli appariva in pubblico erano le udienze generali nei giorni di festa. Il sovrano nominava un primo ministro che non solo fungeva da suo consigliere, ma diventava reggente durante le campagne militari e i viaggi del re. Dopo di lui, nella gerarchia c’era la nobiltà e la classe sacerdotale. Questi avevano grande autorità e presidiavano all’esecuzione della legge e delle disposizioni religiose nazionali. Erano sempre loro ad arginare la diffusione di idee manichee e mazdakite.
I Sasanidi furono in grado di riportare i confini del regno a quelli tracciati dall’achemenide Cosroe Parviz. Inoltre essi furono artefici di una nuova splendida fase dell’arte iranica grazie all’architettura, il bassorilievo, i sigilli, l’argenteria, le sete preziose, che ancora oggi abbelliscono chiese e musei in occidente, e gli splendidi palazzi reali.
Abbiamo visto come gli Arsacidi, nonostante si fossero definiti nei primi anni del loro dominio amici dei Greci, si erano impegnati a costituire uno stile artistico con peculiarità iraniche. Pur essendo influenzati da Roma (poi da Bisanzio) e ovest e dal Buddhismo a est, esercitarono su queste aree limitrofe più influenza di quanta ne ricevettero. Soprattutto nell’architettura, messi da parte i tratti ellenizzanti degli inizi, si manifestò un peculiare stile iranico caratterizzato dall’iwan, elemento che venne ripreso e moltiplicato. Le città, per poter meglio essere difese, vennero costruite con una pianta circolare e rinforzate da bastioni, secondo un modello che trovò continuità successivamente.

 L’Architettura

All’epoca in cui il padre era il custode del tempio di Anahita ad Estakhr e governava il Fars, Ardashir fu nominato governatore dell’attuale Firuzabad. Per prima cosa, egli fece erigere una solida fortezza sopra una sporgenza rocciosa, nella quale elesse residenza. Oggi la rocca si chiama Qaleh-ye Dokhtar (Fig. 16) e dopo di essa costruì una città che chiamò all’inizio Ghur-e Ardashir, nome che cambiò in Shokuh-e Ardashir (‘Splendore di Ardashir’) dopo la vittoria su Artabano. La città si sviluppò su un modello arsacide, cioè a forma circolare. Fuori dalla città, nei pressi di una fonte, Ardashir fece costruire un palazzo di stile arsacide ma con reminiscenze di Persepoli. Il palazzo è costruito con mattoni di pietra non tagliata e malta di calce, rivestiti di gesso. Questo tipo di tecnica costruttiva, ancora oggi utilizzata nel Fars, ha origini locali. Probabilmente, l’uso di mattoni di pietra grezza al posto della pietra tagliata fu dovuto alla scarsità di mezzi materiali di Ardashir, all’epoca semplice governatore per conto di suo padre Babak, che era satrapo del Fars, e privo dei mezzi finanziari per pagare gli scalpellini e le altre maestranze. D’altra parte, Firuzabad è una regione arida con estati molto calde, e la calce serve a mantenere fresco l’interno degli edifici, ragione per cui si tratta di una soluzione ancora oggi in uso nelle aree calde del paese. Formalmente, il palazzo, pur essendo esternamente arsacide, presenta degli elementi consapevolmente achemenidi. In particolare, vi si trovano riuniti due elementi dell’arte achemenide:

a) l’apadana di Persepoli, i cui portici perimetrali sono trasformati qui in iwan arsacidi, con una cupola che si erge sopra il salone quadrangolare; e
b) la residenza vera e propria di Ardashir, che comprende delle stanze attorno a un cortile centrale, posto dietro all’apadana.

L’iwan di ingresso è molto profondo e sui due lati conduce a quattro sale a pianta rettangolare coperte da volte a botte. Dietro alle sale e all’iwan si aprono tre ambienti a pianta quadrata, il cui lato è lungo quanto la lunghezza dell’iwan, coperte da tre cupole. La sala centrale termina con un iwan più piccolo che si apre su un cortile all’aperto; nell’ala alla destra dell’ iwan è situata una piccola stanza collegata al secondo piano e al tetto da una scalinata. Di fronte all’iwan se ne trova un altro della stessa lunghezza, ma più profondo; intorno al cortile, da entrambe le parti dell’ iwan, si aprono delle stanze rettangolari, con un lato lungo circa il doppio dell’altro. La grandezza della pianta dell’edificio è complessivamente di 55 metri per 104, mentre i muri hanno uno spessore che raggiunge in alcuni punti i 4 metri. La monotonia della superficie dei muri esterni è interrotta da contrafforti quadrangolari che sprofondano nel muro; lo stesso effetto è ottenuto all’interno grazie a delle nicchie di forme diverse che sia aprono sui muri. L’altezza dell’ iwan d’entrata, delle stanze laterali e della sala a cupola era ragguardevole, e probabilmente raggiungeva quella delle residenze a due piani. Le nicchie interne, alcune delle quali culminavano in un arco, erano decorate con un frontale simile ai cornicioni che sovrastavano le finestre del palazzo di Persepoli. Le decorazioni erano di stucco, e alcune sono rimaste fino a oggi (Fig. 17).
Questo palazzo divenne un modello per quelli sasanidi successivi, edificati a Sarvestan, Bishapur, Madain in altre città. Pur con le modifiche richieste dal passare delle epoche e dalle esigenze dei diversi luoghi, il principio dell’iwan d’ingresso e dell’apadana rimase invariato (Fig. 18).
Bishapur è una città fondata da Shapur I nelle vicinanze di Kazerun – un luogo il cui panorama ricorda quello di Firuzabad – nel Fars, dopo la vittoria su Valeriano, sovrano dell’impero romano d’oriente. La pianta di Bishapur, a differenza di quella di Firuzabad, non è circolare, ma rettangolare come quella delle città greco-romane. Da un lato la città era protetta da bastioni fortificati e fossati, e terminava sulle pendici della montagna, difesa da altre piccole fortezze e da un sistema di mura fortificate e baluardi, mentre sull’altro lato scorreva un fiume. Bishapur significa ‘la bella città di Shapur’, ed era realmente una cittadella imperiale che comprendeva palazzi, templi del fuoco ed edifici politici, amministrativi e militari. Il palazzo di Shapur nella città era costituito da un salone composto da pietre legate con calce, secondo tecniche e procedure che sono tipiche dell’architettura iranica. Le pertinenze del palazzo sono un edificio più piccolo, un tempio del fuoco reale e una sala laterale a base rettangolare. Uno spazio quadrato dal lato di 22 metri forma il supporto per una cupola dall’altezza di 25 metri, attorno alla quale si aprono quattro iwan a tre stanze. Lo spazio al di sotto della cupola è grosso modo cruciforme, e presenta 64 archi ornamentali rivestiti in calce e elementi decorativi vegetali in stucco, colorati in rosso vivo, verde e nero, che riempiono tutto lo spazio tra gli archi. È possibile che maestranze romane e bizantine abbiano contribuito alla costruzione, e soprattutto alla decorazione, del palazzo, poiché come sappiamo, Shapur condusse in patria come prigionieri Valeriano insieme a un gran numero di romani (si dice 70.000). Alcuni dei prigionieri rimasero in Iran, e tra loro c’erano senz’altro artisti, architetti e ceramisti. È altresì possibile che alcuni di questi artisti siano emigrati spontaneamente in Persia per trovare condizioni migliori di lavoro o di retribuzione. Nella parte orientale del salone si aprono tre iwan con annesso un ampio cortile, pavimentato con lastre di pietra, che aveva i margini decorati a mosaico: questo stile forse riproduceva i disegni dei tappeti del periodo e i mosaici rappresentano scene di banchetti. Le donne della corte sono appoggiate morbidamente ai cuscini oppure in piedi con vesti lunghe, corone e mazzi di fiori in mano, altre sono impegnate a confezionare corone e ghirlande. Gli abiti sono greco-romani, così come fondamentalmente lo è il genere del mosaico; nell’arte iranica è raro che sia rappresentata la donna, soprattutto da quando il credo zoroastriano era divenuto religione ufficiale dell’impero.
Nonostante la prevalenza greco-romana, in queste opere hanno avuto un ruolo anche gli artisti iranici. Ad esempio: la postura delle donne (sedute come ancora oggi ci si siede in Iran); oppure la forma dei ventagli, o i riccioli, portano il segno di un gusto peculiarmente iranico; o ancora, i tratti somatici, le acconciature e alcuni particolari nei vestiti, tutto testimonia di influenze iraniche. Certi volti con il mento sfuggente tradiscono un’ispirazione dalle rappresentazioni di Siyalk e del Luristan che, trapassando la coltre delle generazioni, giunse fino ai Parti e poi ai Sasanidi. Furono gli Arsacidi diffondere questi stilemi nel paese,ed essi vennero poi adottati dai paesi vicini. Per questo, è possibile affermare che gli artisti siriaci e bizantini crearono a Bishapur un’arte iranico-romana.
Accanto al palazzo dei tre iwan, ce n’era un altro, i cui scavi non furono terminati a causa dello scoppio della II guerra mondiale; di esso sono state portate alla luce due nicchie eseguite secondo la tradizione achemenide. L’edificio, eretto con mattoni di pietra tagliata, nella sua forma rettangolare è debitore delle nicchie del palazzo di Dario e Serse. I resti dei bassorilievi, pieni di lacune e parti mancanti, rappresentano probabilmente scene della vittoria di Shapur su Valeriano.
Un grande palazzo cruciforme si trova vicino a un tempio che probabilmente era dedicato ad Anahita, dea dell’acqua, della fertilità e dell’abbondanza. L’edificio, a pianta quadrata dal lato di 14 metri, ha quattro aperture intorno alle quali si estendono 4 corridoi in mezzo ai quali scorrevano delle canalette d’acqua corrente. Per entrare nel tempio dal palazzo è necessario attraversare una lunga scalinata. I muri sono alti 14 metri, costituiti da blocchi di pietra collegati con cerniere a coda di rondine e pietrisco. Il soffitto del tempio si reggeva su travi di legno appoggiate a capitelli di pietra a forma di busto di bufalo, simili ai capitelli delle colonne di Persepoli – ma senza la grazia e la raffinatezza di quelli. Nel tempio vi era in braciere di pietra, il cui piedistallo è stato ritrovato in un edificio di epoca islamica.
Bishapur, che era una città reale, aveva dei distretti dove alloggiavano i dignitari del paese. Essa era divisa in quattro quartieri per mezzo di due strade incrociate perpendicolarmente. Nel 266, il governatore della città fece costruire in onore di Shapur un monumento commemorativo proprio all’incrocio dei viali, composto da una colonna tripartita, i cui primi due livelli costituivano una gradinata sulla quale poggiavano due colonne di pietra formate da un unico blocco. Il terzo livello, che ha un solo gradino, era probabilmente il punto sul quale era issata una statua di Shapur. Ai due lati erano posti altri due supporti che probabilmente servivano da bracieri. Questo genere di costruzione a doppia colonna portava il marchio della romanità, ed è probabile che chi lo progettò fosse un romano di Siria, anche alla luce dell’iscrizione in caratteri greci che ancora si può leggere sulle pietre di Bishapur. Malgrado ciò, non si può certo dire che Bishapur sia una città romana, avendo essa numerose specificità iraniche, e addirittura, per dirla con Ghirshman, porti impresso un vero e proprio marchio di iranicità, rappresentato dall’iscrizione che si trova su una colonna del monumento. Shapur I volle immortalare la sua vittoria su Valeriano con una iscrizione trilingue (pahlavi arsacide, pahlavi sasanide e greco) incisa sulla “Kaba di Zarathustra”. Lo stesso testo venne fatto incidere in prossimità di cinque bassorilievi sparsi sulle rocce del Fars, tra cui anche a Bishapur, per incitare la popolazione alla guerra.
Shapur I eresse a Ctesifonte, che era la capitale degli Arsacidi e fu capitale anche sotto Ardashir I, un palazzo che per magnificenza e grandezza suscitò lo stupore di tutti. Gli Arabi, dopo aver conquistato la città, furono colpiti dallo splendore del palazzo, e ancora oggi è possibile scorgere lo stupore nei volti dei visitatori. Il palazzo, noto come “Iwan di Madain” si sviluppa in lunghezza ed è composto di 4 piani, il secondo e il terzo alti insieme come il primo. I piani sono decorati con archi ciechi delimitati da mezze colonne, e l’ispirazione deriva chiaramente dal palazzo degli Arsacidi di Assur. Il grande iwan principale, alto più di 27 metri, profondo 49 e largo 26, presenta degli elementi architettonici che lo richiamano, come gli iwan più piccoli o le file orizzontali – maggiori come numero rispetto a quelli del palazzo di Assur – che segmentano la facciata, e le colonne gemelle che inframmezzano le arcate. Nei palazzi arsacidi, in ogni caso, le dimensioni di ciascun piano sono costanti, mentre a Ctesifonte è variabile, e la riduzione progressiva dell’altezza dei piani alti sembra rendere l’edificio più alto di quello che è in realtà. Ciascuna di queste file costituisce una unità indipendente, presentandosi come una striscia orizzontale senza alcun rapporto con gli elementi verticali della facciata. In questo modo, due file di archi ciechi sono delimitati da un arco che non poggia su colonne, ma si pone nell’angolo del muro, in qualche modo definendolo. È questa, un’altra caratteristica tipica dell’architettura sasanide, che rende possibile raggiungere il resto dell’edificio. Attualmente è in piedi la parte sinistra del palazzo, mentre la destra è crollata a causa del terremoto del 1880.
Il palazzo di Ctesifonte era un complesso simmetrico, nel senso che nella parte posteriore dell’ iwan si estendeva un insieme di stanze raggiungibili sia dall’iwan stesso che dalla porta d’ingresso (il secondo arco da entrambi i lati) situata sulla facciata. Dietro al complesso si ergeva un altro iwan simile al primo, il cui uso ancora non è chiaro, e che era leggermente più piccolo, anche se dela stessa larghezza.Non è chiaro quale fosse in realtà il salone principale, ma sappiamo dagli storiografi antichi che era decorato con immagini che rappresentavano le scene della battaglia di Cosroe I ad Antiochia, e che aveva un grande tappeto impreziosito da pietre dure e gioielli, noto come “primavera di Cosroe”. Si dice che quando gli Arabi conquistarono la città fecero a brandelli il tappeto, spartendolo come bottino di guerra tra i combattenti. Alcuni reperti del sito sono stati rinvenuti in scavi effettuati da archeologi tedeschi, segnatamente diversi cubi incastrati nella parte superiore dei muri del palazzo, ricoperti d’oro, mentre le parti inferiori erano rivestite in lastre di marmo multicolore. La facciata esterna, come negli altri palazzi sasanidi e in quello di Bishapur, erano intonacati a calce decorata, come testimoniano i numerosi frammenti conservati nei musei occidentali. Le decorazioni interne delle stanze erano simili a quelle del palazzo di Bishapur, essendo stati entrambi fatti costruire da Shapur I. Un altro palazzo notevole è quello di Sarvestan, che è all’origine dell’architettura islamica d’Iran.
Il palazzo di Sarvestan risale al V secolo d. C., cioè due secoli prima dell’Islam. Prima di descrivere questa costruzione di mattoni, è necessario ricordare che i Sasanidi cessarono di utilizzare la pietra tagliata tra il III e IV secolo d. C. Il materiale di costruzione divenne la pietra grezza nelle regioni montuose e il mattone nelle zone continentali dell’altipiano. La tecnica costruttiva della cupola e della volta diede inoltre impulso allo sviluppo delle capacità costruttive dei Sasanidi, che intrapresero nuove strade e che anzi si svilupparono durevolmente anche al di fuori dei confini dell’impero.
Dopo la distruzione di Susa durante le guerre tra Iran e Roma, Shapur II fece costruire una nuova città imperiale 25 km più a nord, sulle rive del fiume Karkheh: Iwan-e Karkheh. La pianta della città, come quella di Bishapur, non ha nulla di arsacide, seguendo invece il modello romano di cardo e decumano, un rettangolo di quattro chilometri per uno. Il palazzo reale ha un salone quadrangolare sormontato da un cupola, con un’ala lunga dotata di entrata indipendente, oltre alle porte che si aprono sull’iwan frontale, il salone e il cortile. Il soffitto dell’androne d’entrata è formato da volte a botte, che insieme agli archi che scorrono da muro a muro per conferire maggiore forza portante all’edificio, lo suddividono in cinque parti. Un chiosco a tre iwan si erge nei quartieri reali, le cui pareti erano forse riccamente affrescate sullo strato esterno di intonaco. Nel periodo di Shapur II l’affresco e la decorazione a stucco godettero della stessa diffusione e di uguale considerazione.
Il palazzo di Sarvestan presenta la stessa tipologia di costruzione, ma risalendo al V secolo d. C., i materiali sono costituiti dalla pietra e dalla calce. La facciata presenta tre iwan che si affacciano verso l’esterno, quello centrale leggermente più alto e largo degli altri e descrive un rettangolo formato da due quadrati, dietro al quale si apre un salone di ricevimento. Questa facciata a tre iwan divenne un modello ripetuto successivamente in tutto l’Iran; e anche oltre, dato che lo stesso tema si ritroverà poi nel XIII secolo nelle chiese gotiche francesi, e dalla Francia si diffuse poi nel resto dell’Europa.
La sala di ricevimento ha pianta quadrata; sul lato occidentale del quadrato si apre l’iwan d’ingresso della facciata frontale, dalla parte opposta (a est) c’è il cortile della parte residenziale; sul lato nord si apre un altro iwan, più profondo e meno largo di quello d’ingresso, mentre quello meridionale è adiacente a un salone alto e lungo. Questo ha una porta che si apre, prima di collegarsi all’iwan della facciata, su una stanza quadrangolare che conduce prima all’ iwan principale del salone e poi, dalla parte opposta, all’esterno. Il grande iwan settentrionale del salone di ricevimento, oltre alle due entrate al palazzo, ha una porta che conduce a una stanza rettangolare (simile al vestibolo quadrangolare dei templi del fuoco), contigua all’ iwan più piccolo al lato di quello principale, che a esso è anche collegato da una porta. Un’altra porta collega il grande iwan settentrionale alla lunga sala che appartiene alla parte residenziale del palazzo.
La novità di questo palazzo risiede nelle volte pensili degli stretti saloni sostenuti da corte e massicce colonne. In questo modo, sono stati ricavati due larghi corridoi centrali che grazie ad archi laterali disposti tra le colonne e alla copertura a mezze cupole, appaiono ancora più larghi. Simili soluzioni sono state usate nei palazzi sasanidi di Kish, in Mesopotamia. Nel secondo palazzo di Kish, infatti, lo stesso corridoio centrale è più ampio, e porta a una corte a tre volte, sorrette da sei colonne allineate al centro. Le decorazioni interne degli edifici sasanidi erano in stucco e pittura. Parleremo di queste decorazioni nella sezione dedicata alle arti decorative.
La composizione del palazzo di Sarvestan è in realtà simile a quella del palazzo di Firuzabad, pur con una maggiore libertà e varietà nei dettagli e negli elementi decorativi. La sala del ricevimento, senza prendere in considerazione gli spazi annessi, è un po’ stretta, mentre grandi e maestosi, ancorché pochi, sono i saloni secondari. Questi hanno numerose porte che si aprono verso l’esterno, cosa che ha lasciato pensare agli archeologi che non si trattasse di locali residenziali. L’ampiezza del palazzo è circa un quarto di quella del palazzo di Firuzabad. Lo storico Tabari si dice convinto che il palazzo appartenesse a Mir Narseh, potente ministro di Bahram Gur, che lo avrebbe eretto su terreni di sua proprietà.
La cupola del palazzo, successivamente ripresa nell’architettura islamica d’Iran, differentemente da quella di Firuzabad, è fatta in mattoni, e fu eretta dopo la preparazione a terra di tutti componenti, in modo che fosse perfettamente circolare. Il palazzo, oltre alla cupola principale, ne ha altre due, minori; la prima si erge sulla stanza che si trova di fronte all’angolo settentrionale della facciata principale, e la seconda copre la stanza che si trova dalla parte opposta sulla diagonale.
I Sasanidi costruirono altri palazzi, che presentano differenze, dal punto di vista della forma architettonica, con quelli di Sarvestan, Firuzabad e Bishapur. Tra questi, il palazzo di Damghan, riportato alla luce solo parzialmente. La parte dell’edificio attualmente scavata presenta un grande iwan d’ingresso e una sala quadrata coperta da una cupola, elementi che gli conferiscono importanza e splendore. A differenza della sala sormontata da cupola di Firuzabad e Sarvestan, che ha porte relativamente piccole che si aprono sull’iwan, la sala di Damghan è una vera e propria sala a quattro archi, e la sua cupola è sorretta da quattro supporti nei quali si aprono altrettanti grandi portali. Anche l’arco dell’iwan non è appoggiato su muri, ma su file di colonne disposte parallelamente ai muri. L’edificio è probabilmente risalente al periodo successivo al regno di Bahram Gur.
Un ampio complesso di rovine note con il nome di “palazzo di Shirin” si trova lungo la via che collegava la Mesopotamia all’altipiano. Secondo quanto testimoniano gli storici antichi, soprattutto arabi, il sito comprendeva 120 ettari di giardini, chioschi e aree di svago, fontane e perfino parchi con animali selvatici, e l’acqua del fiume Helwan vi era condotta per mezzo di un sistema di canali. Il complesso è oggi un cumulo di pietre e rovine. Un altro palazzo che merita di essere descritto quello noto con il nome di “Palazzo di Cosroe”, che era sito su un colle in mezzo a un giardino, raggiungibile per mezzo di una scalinata simile a quella di Persepoli. Il palazzo, fatto erigere da Cosroe II “Anushirvan”, era lungo 372 metri e largo 190, e dal punto di vista compositivo era molto simile ai palazzi di Firuzabad e Sarvestan. La facciata era alta 8 metri e di fronte scorreva per 550 metri un corso d’acqua. Il grande iwan colonnato ricorda quello di Damghan, e conduceva a un salone quadrato coperto da una cupola del diametro di 15 metri, ai due lati del quale si aprivano due lunghe sale dal soffitto a botte. Dietro quest’area c’era un giardino, che era collegato all’area residenziale e alle sue pertinenze. La pianta della struttura segue un modello antico, che però non prevedeva la presenza di residenze intorno al giardino. Le stanze si aprivano intorno al cortile e gli edifici quadrangolari erano uniti tra di loro disposti un due file parallele separate dai muri del cortile per mezzo di corridoi. Questi giardini interni erano collegati al cortile principale da un iwan colonnato, a sua volta conducente al salone con cupola. Il grande iwan principale era rivolto a est e tutto l’edificio era orientato lungo l’asse est-ovest. Nella sua parte meridionale c’era una sala molto ampia e lunga, della stessa lunghezza dei tre cortili, con un soffitto a volta che si regge, come l’iwan del palazzo di Damghan, su una doppia fila di colonne con più di 15 colonne ciascuna.
Oltre ai palazzi e ai templi, come quelli di Shiz o Takht-e Soleyman, è utile menzionare i templi del fuoco a cupola, dove era officiato il rituale del fuoco, e le chiese cristiane. Di quest’ultime sono rimasti alcuni resti che permettono di tracciare un collegamento tra l’architettura sasanide e le successive chiese dell’occidente. Di fatto, elementi architettonici sasanidi sono arrivati al gotico occidentale dopo aver subito delle metamorfosi e, quantunque André Godard abbia negato questa eventualità in modo pregiudiziale, la somiglianza tra la trifora gotica e la facciata del palazzo di Sarvestan è innegabile. Un’altra tipologia di edificio che non ha una grande rilevanza architettonica è il padiglione a quattro pilastri, cioè una costruzione semplice con una cupola appoggiata a quattro sostegni disposti su quattro angoli, con lo spazio sottostante del tutto libero. Sono rimasti molti esempi di questa tipologia di edificio, che era destinato al rituale pubblico del fuoco.
Il padiglione a quattro pilastri non è così importante dal punto di vista architettonico, ma dato che è all’origine di numerose costruzioni religiose post sasanidi dell’Iran islamico, è opportuno dedicargli una qualche attenzione. I templi del fuoco erano posti in linea con i sistemi di torri di guardia. Il più importante di questi edifici è stato il primo tempio del fuoco di Takht-e Soleyman, che risale all’epoca arsacide, utilizzato fino alla fine dell’epoca sasanide. Come i libri di storia ci dicono, il fuoco eterno veniva ivi custodito e serviva per accendere i fuochi degli altri templi. Questo tempio è famoso nei testi antichi come “tempio del fuoco di Azar Goshasb”.
Due piccoli edifici simili a quello di Takht-e Soleyman, con le stesse caratteristiche ma di proporzioni minori, uno dei quali è sito nel Fars, vicino a Bishapur, oggi noto come Emamzadeh Seyyed Hosein, e l’altro vicino a Jareh, nella stessa regione. Il primo è senza dubbio un tempio del fuoco, il secondo era probabilmente una chiesa, anche se non si discosta molto come struttura dal primo. Entrambi sono composti, come il tempio di Takht-e Soleyman, da una sala a cupola, un vestibolo che la circonda e altri spazi annessi.
Un altro piccolo edificio si trova nel complesso di Kuh-e Khajeh, ed è annoverato tra i templi del fuoco, dato che nelle vicinanze è stato trovato un altare del fuoco costituito da una sala quadrata circondata da un corridoio. Si dice che il nome Kuh-e Khajeh derivi da un asceta discendente dal profeta Abramo, chiamato Khajeh Sarasarir, la cui tomba si trova all’estremità settentrionale della collina, dove si raccoglie la gente del Sistan nel periodo del capodanno. Fu Herzfeld a scoprire il sito, datandolo al III d. C., poiché il palazzo e il tempio non costituivano un unico complesso architettonico, bensì si presentavano come due edifici distinti messi in collegamento successivamente. Probabilmente il tempio fu annesso solo quando il palazzo arsacide venne rinnovato. Grazie alla comparazione, possiamo affermare che il modello del tempio fosse l’apadana achemenide, passato poi con evidenti modifiche a Takht-e Soleyman nel periodo arsacide, e infine pervenuto al periodo sasanide all’Emamzadeh di Hosein vicino a Bishapur e al piccolo edificio di Jareh. Dai testi di epoca islamica si evince che il tempio del fuoco di Esfahan, che sorgeva su una collina isolata e di cui oggi non resta che un muro portante e la base, era amministrato dal padre di Salman il persiano, e probabilmente era il tempio cui facevano capo tutti gli altri altari minori di quella zona, che vi attingevano il sacro fuoco (come il tempio di Hoseinkuh nel Fars, che dominava quello di Persepoli e gli altri templi vicini).
Pausania scrive nel II secolo dei templi del fuoco: “In essi c’è una stanza speciale e separata dal resto in cui brucia senza fiamma il fuoco eterno, su un altare sopra la cenere.” Il fuoco di questi templi bruciava in una stanza interna, priva di aperture, a differenza dell’altare, che era posto all’aperto, e che guadagnò sempre maggiore importanza e dimensione, fino a che fu posta su una base rialzata, in modo tale che la gente potesse venerarla anche da lontano. Più tardi il fuoco venne posto sotto un parasole, coperto da una cupola che poi divenne la costruzione tipica. Alcune di queste costruzioni, semidiroccate, si trovano ancora a Natanz, Kazerun e Firuzabad, mentre i complessi che vi sorgevano attorno sono scomparsi. Per quanto riguarda il tempio di Firuzabd, eretto, come Qaleh Dokhtar e il palazzo di Firuzabad, da Ardashir I, gli storici musulmani come Estakhri, Ibn al-Faqih, Masudi e anche Ferdowsi, hanno scritto su di esso talmente tanto che – insieme a quello che è rimasto – saremmo in grado di ricostruirlo daccapo. Tra i versi di Ferdowsi si ricava che il tempio di Firuzabad era un grande edificio dotato di una base quadrata altra due metri sopra il livello del terreno, che si ergeva all’ombra di alberi, e al cui centro si alzava una struttura, visibile ancora oggi. Sulla piattaforma era posta la cupola retta da quattro colonne, sotto la quale c’era il fuoco. Intorno alla struttura c’erano giardini e altre pertinenze del tempio, tra cui un braciere, un deposito e gli alloggi dei custodi del tempio. A sud, nel centro geometrico del bastione circolare della città antica di Ghur-e Ardashir (l’attuale Firuzabad), c’era un’alta torre sopra la quale veniva issato il fuoco sacro al momento delle cerimonie.
Nessun complesso di edifici come quello descritto è arrivato fino a noi. Eppure, nel XII secolo h., è stato trovato un tempio simile a Baku, e un altro edificio islamico chiamato mosalla a Yazd. Nel centro del cortile del tempio di Yazd, che era il luogo del rituale collettivo, si trovava il necessario per il rituale del fuoco sotto un parasole, e i locali annessi al tempio (un magazzino, l’abitazione dei servitori) erano intorno al cortile. Il mosalla di Yazd segue lo stesso schema.
Sicuramente c’erano delle eccezioni alla struttura della cupola appoggiata a quattro colonne, come nel caso di Takht-e Soleyman, o il tempio di Azar Goshasb in Azerbaijan, la moschea di Soleyman nel Khuzestan, Takht-e Rostam nei pressi di Tehran. Takht-e Rostam è costituita da due piattaforme di pietra, una posta ad un terzo e la seconda sulla cima del colle, isolata nel mezzo di una spianata. La piattaforma posta sulla cima ospitava un fuoco di segnalazione, che si poteva scorgere da Tehran (a 40 km di distanza) e anche da più lontano. L’altra piattaforma, quella nel primo terzo della montagna, era il luogo in cui venivano custoditi gli oggetti del rituale e, a giudicare dalla sua ampiezza, si può ipotizzare che fosse il punto in cui si radunavano i fedeli (parte della spianata è artificiale). Il luogo dove veniva custodito il fuoco era un piccolo edificio coperto da cupola di stile sasanide, dal quale veniva prelevato il fuoco cerimoniale.
Esistevano altri edifici della stessa topologia che però non erano templi del fuoco, ma basi per la raccolta e la trasmissione di informazioni, poiché si trovavano lungo vie di comunicazione, isolate e senza altri edifici attorno (queste costruzioni si trovano a Farash-band, Jareh, Tun-e sabz, tutte nella piana di Jareh; ad Ateshkuh, vicino a Delijan, a Niyasas, tra Delijan e Kashan – tutte cupole isolate che poggiano su quattro colonne). Un struttura simile, a Qaleh Dokhtar vicino a Qom, ha un corridoio intricato che la collega a un altare del fuoco. Un altro si trova a un’altitudine di 3.000 metri, sopra la città di Setanak nella catena dell’Alborz, anch’esso chiamato Qaleh Dokhtar; non ha esattamente la stessa struttura degli altri, ma è un edificio quadrato con due stanze, uno dei quali conservava il fuoco ed era collegato all’altro da un corridoio. Le stanze non erano coperte da cupola, e i corridoi avevano un soffitto a volta a botte. Questi edifici che sorgevano molto in alto intorno alle vie di comunicazione principali avevano la doppia funzione di segnalazione e di benedizione per i viaggiatori.
È opportuno aggiungere a questo elenco altri tre edifici dello stesso genere. Uno è quello di Izad-khast nel Fars, situato su un’altura e che gradualmente venne circondato da abitazioni. La struttura vera e propria è separata dal fertile terreno circostante per mezzo di muri verticali; essa divenne poi la moschea del luogo, anche se oggi il complesso è ridotto a una rovina pericolante a rischio di crollo. Il complesso fu abitato fino alla metà del secolo scorso, ma fu abbandonato quando un terremoto lo rese del tutto inagibile. Il secondo è quello di Kheirabad, nel Khuzestan, situato a cento metri da un ponte di epoca sasanide, e che indicava da lontano ai viaggiatori il letto del fiume. Il terzo è quello di Barzu, nei pressi di Qom, a circa 12 km da Ramjerd, sulla strada che collega Qom e Sultanabad-Arak. In tutti questi casi, si tratta di costruzioni di epoca sasanide che sorgono grosso modo tutte nel centro e nell’est dell’altipiano. C’è n’è un altro a nord-est, a metà strada tra Mashad e Torbat-e Heidariyeh, nel Khorasan, a Bazhur. È un edificio che non è né una normale stazione di segnalazione né un edificio religioso, ma è probabilmente una pertinenza di due fortezze chiamate Qaleh Pesar e Qaleh Dokhtar, che nei tempi antichi difendevano l’accesso alla valle. Queste semplici costruzioni con le loro strutture essenziali, furono negli anni successive destinate ad avere una grande importanza nella determinazione dello stile della moschea, di cui parleremo nella parte dedicata all’arte islamica.

 Scultura e statuaria
Il periodo di Ardashir I

Con la nascita di una nuova cifra architettonica sasanide, evidentemente autoctona e priva di contaminazioni greche e arsacidi, sotto Ardashir I emersero anche una scultura e una statuaria sasanidi. Da questo periodo in poi, gli artisti iraniani cercarono di produrre grandi composizioni su pietra per esaltare il rango della nuova dinastia avvicinandolo alla grandezza degli Achemenidi. Le prime opere furono i bassorilievi di Ardashir I e di suo figlio Shapur a Naqsh-e Rajab e Naqsh-e Rostam. La produzione di bassorilievi continuò fino alla comparsa dell’Islam, nel VII secolo (a Taq-e Bostan, ad esempio). Tra le opere del VII secolo si percepisce una certa influenza bizantina, come nella rappresentazione della vittoria alata che adorna la grotta più grande di Taq-e Bostan. Le opere precedenti invece sono del tutto iraniche nella forma e nello spirito. Quegli elementi tipici dell’iranicità emersero sempre, anche se talora oscurati da diverse vicissitudini, con il manifestarsi di condizioni propizie. La migliore scultura sasanide risale al III secolo. Alcuni iranisti occidentali, e in particolare lo storico dell’architettura e archeologo André Godard, sono convinti che “la scultura iranica dell’epoca non deve essere paragonata al ritratto, bensì alle opere d’arte di artisti come Verrocchio, Benvenuto Cellini e altri grandi esponenti del Rinascimento italiano che furono abili orafi”. Ad esempio, il cavallo di Shapur, con la sua splendida forma e la sua possente figura, esempio di scultura raffinata che sembra quasi essere stata eseguita su bronzo lucido, è del tutto simile a opere di Colleone da Venezia.
Senza dubbio dietro a quegli artisti che hanno prodotto quei meravigliosi pugnali e altre armi in bronzo che oggi emergono dalle tombe e dai templi del Luristan, c’è il lavoro di un maestro iraniano. Cercare al di fuori delle terre iraniche le radici di queste opere è vano; l’arte antica dell’Iran deriva da questo splendore sfociato in maniera del tutto naturale nelle sculture di Persepoli.
Tutta la scultura rupestre sasanide si trova nel loro territorio d’origine, il Fars, ad eccezione dei rilievi di Salmas, a est del lago Rezaiyeh, e di Taq-e Bostan, vicino a Kermanshah. Ad eccezione di un unico caso a Naqsh-e Rostam, che rappresenta uno dei sovrani della dinastia, tutti i rilievi sono databili attraverso la forma della corona dei sovrani rappresentati. Inoltre, ad eccezione di Taq-e Bostan – i cui bassorilievi datano al 388 – e delle sculture della grotta di Cosroe Parviz, che risalgono all’incirca al 600, tutte le opere appartengono al periodo di Ardashir e di Shapur.

André Godard ha classificato queste opere in tre gruppi:

1) Quattro sculture di Ardashir I (224-241), due a Firuzabad, una a Naqsh-e Rajab e una a Naqsh-e Rostam; 8 sculture di Shapur I (241-272), due a Naqsh-e Rajab, due a Naqsh-e Rostam e quattro a Bishapur; una rappresentazione di Bahram I (273-276) a Bishapur; 5 di Bahram II (276-293), di cui due a Naqsh-e Rostam, una a Naqsh-e Bahram, una a Bishapur, una a Sar-e Mashhad; una rappresentazione di Narsete (293-302.) a Naqsh-e Rostam, e una di Hormozd II (302-309), nello stesso luogo.
2) Una scultura di Ardashir II (379-383) a Taq-e Bostan, l’immagine della piccola grotta di Taq-e Bostan che mostra Shapur II (309-379) e suo figlio.
3) Le immagini della grotta di Cosroe Parviz (590-628) a Taq-e Bostan.
Due immagini di Ardashir I sono state scolpite lungo le rocce che fanno da sponda al fiume Baraz. Il fiume scorreva nella piana in cui Ardashir, dopo la vittoria di Artabano, fece costruire la città di Ghur-e Ardashir (oggi Firuzabad). Una di queste immagini testimonia proprio quella vittoria, mentre le altre, come quelle di Naqsh-e Rajab e Naqsh-e Rostam, rappresentano Ardashir mentre viene prescelto dalla Fravarti per il regno. Tre di queste sculture sono manifestazioni della scultura sasanide, mentre la quarta è un vero e proprio capolavoro dell’epoca. I rilievi di Firuzabad, che sorgono accanto al fiume Baraz, sono tra le più antiche e maestose opere rupestri sasanidi; in essi sono rappresentati tre coppie di guerrieri che combattono uno di fronte all’altro. Ardashir disarciona Artabano con una lunga lancia, dietro di lui si vede il figlio maggiore Shapur I mentre rovescia il primo ministro plenipotenziario del re arsacide, e in fondo un nobile persiano che afferra per il collo un nobile arsacide. In questa rappresentazione non c’è alcun realismo; l’artista ha rappresentato ciascun personaggio solo grazie ad una minuziosa decorazione dei capelli, degli abiti, delle armi e dei finimenti dei cavalli. La mancanza di realismo potrebbe derivare dall’ignoranza da parte degli esecutori dei principi della ritrattistica, oppure da una precisa volontà di esprimere stilisticamente l’universalità temporale della vittoria dell’Iran sull’“amico dello straniero”.
In questa opera il volto di Ardashir è ritratto di profilo, rispetto al corpo che invece è frontale. L’acconciatura dei capelli è quella tipica dei sovrani dell’epoca: i capelli raccolti in massa sopra la testa a formare una crocchia e i riccioli che scendono in due trecce sulle spalle del sovrano, mentre i nastri della corona, arricciati dietro, la barba appuntita raccolta intorno a un anello e la collana di perle sono tutti tratti che si ricollegano all’antico stile iranico.
I cavalli, come nell’arte achemenide, sono veloci quadrupedi lontani da ogni realismo, così come il resto degli elementi della rappresentazione. È come se l’artista volesse fissare per l’eternità l’istante della vittoria, senza prestare particolare attenzione agli elementi minori e secondari di un ritratto completo. Può trattarsi di uno sforzo verso l’astrazione, una lezione che l’artista persiano ha imparato dalle opere achemenidi. Quell’astrazione che si manifesterà successivamente anche nel disegno di epoca islamica producendo dei veri capolavori.
Nell’immagine di Gudarz II a Bisotun fu riprodotto proprio questo stile. Nonostante la grande estensione del tema della rappresentazione, l’ispirazione che la sottende è la medesima, né la tecnica usata differisce dal passato. I rilievi piatti di Firuzabad e Susa, solo di qualche anno precedenti, sono molto simili. Anche qui emerge la stessa staticità: i ritratti occupano la maggior parte della scena e i particolari, come le armature pesanti che rivestono il corpo di uomini e cavalli, sono molto dettagliati. La realizzazione a due dimensioni rivela come il rilievo sia stato scolpito partendo da una base disegnata, e per quanto l’artista si sia ingegnato a nascondere i particolari arsacidi, elementi dello stile della precedente dinastia sono stati conservati.
A qualche centinaio di metri dall’immagine di Ardashir a Firuzabad, si trova un’altra rappresentazione, che immortala l’incoronazione di Ardashir per mano della Fravarti. Il re e la Fravarti sono posti sui due lati di un altare del fuoco, che pur non trovandosi in altre sculture sasanidi, è raffigurato su tutte le monete della dinastia. Ardashir tiene nella mano destra il cerchio della corona, piegando l’indice della sinistra in segno di rispetto. La Fravarti ha sulla testa una corona merlata, simile alla corona achemenide. I due personaggi sono posti alla stessa altezza, mentre dietro al sovrano un nobile, posto più in basso, tiene nella mano una paletta. È un tratto tipico dell’arte antica quello di indicare il rango dei personaggi per mezzo di stature diverse. Dietro al nobile si trovano tre notabili di corte, probabilmente il figlio e altri familiari.
Per sottolineare l’idea della continuità con gli Achemenidi – e probabilmente anche per onorare la sacertà della zona – Ardashir fece scolpire la scena dell’incoronazione anche a Naqsh-e Rostam. In questa opera scultorea il sovrano e la Fravarti sono entrambi a cavallo. Ai piedi del cavallo della Fravarti è rappresentato un Ahriman dal volto sfigurato, mentre ai piedi di quello di Ardashir c’è Artabano V. Queste le novità dell’opera: la Fravarti tiene nella mano destra il barsom, mentre la corona sferica di Ardashir, che dovrebbe essere sul capo, è nella mano. I cavalli appaiono più possenti, anche se rispetto ai cavalieri sono più piccoli del normale, e i nemici sono rappresentanti a terra, sotto le cavalcature. Sopra l’anello che Ardashir e la Fravarti reggono insieme, c’è un circolo a rilievo che è forse il simbolo della presenza di Mitra. Una iscrizione trilingue (pahlavi sasanide, pahlavi arsacide e greco) reca il nome del sovrano e della Fravarti, continuando la tradizione achemenide delle iscrizioni trilingui su pietra.
Queste prime sculture, insieme ai primi edifici sasanidi, mostrano come i Sasanidi cercarono di stabilire una continuità con gli Achemenidi, dando seguito alle tradizioni artistiche dell’Asia occidentale. Nella misura in cui l’influenza dell’arte arsacide, che collega la tradizione iranica orientale agli Achemenidi, permane nell’arte sasanide anche se con alcuni cambiamenti, si può affermare che l’arte sasanide sia erede fin dall’inizio della tradizione iranica.
André Godard scrive a proposito di queste iscrizioni: “In nessuna di esse si trova qualcosa che sia estraneo all’arte iranica”. D’altra parte, la stessa staticità della scena e dei personaggi si ritrova anche nelle rappresentazioni di epoca achemenide, come viene confermato da Hetzfeld a proposito della mancanza di movimento e di partecipazione dei personaggi: “Questa mancanza è normale in ogni arte giovane ed è possibilmente dovuta alla carenza tecnica degli scultori che furono impiegati. Molto presente è invece l’idea di una simmetria completa che è una delle principali caratteristiche”. F. Sarre analizza l’immagine dell’investitura di Ardashir: “Ogni volta l’artista vuole esprimere somiglianza e proporzione, come nei due cavalli e nella parte bassa del corpo del re e della Fravarti, e anche nel resto dell’opera, cerca di fare corrispondere tutto il più possibile”. La figura che appare sotto il cavallo della Fravarti, in cui si può facilmente riconoscere Ahriman, simbolo del male, corrisponde e fa da contralto alla figura dell’ultimo re arsacide Artabano V, ritratto sotto il cavallo del sovrano. In corrispondenza del ricciolo della Fravarti c’è la paletta dell’uomo, e di fronte al suo bastone (il barsom?) c’è la mano in posizione adorante del sovrano”.
Composizioni simmetriche sono utilizzate per esprimere concetti religiosi e mistici. In una composizione simmetrica le forze che sono poste sulle due parti sono disposte lungo un asse verticale, per mezzo del quale l’osservatore è in qualche modo guidato verso l’alto. Nel corso dei secoli precedenti, dalla preistoria fino alla nascita di queste grandi sculture rupestri, questo tipo di simmetria era sempre stata utilizzata, soprattutto nel caso dei pugnali votivi dei Cassiti, come espressione di un’essenza religiosa; la tradizione continuò fino alla fine dell’epoca sasanide, anche quando si trattò di esaltare la grandezza del sovrano.

 Il periodo di Shapur I

Ardashir I introdusse suo figlio Shapur negli affari di corte e di governo, affidandoglieli completamente negli ultimi anni della sua vita.
Shapur I era intelligente, colto, magnanimo e nobile. Era amante della cultura, delle lettere, dell’arte e della filosofia, tanto che ordinò la traduzione in pahlavi di importanti opere straniere. Si mostrò aperto nei confronti di Mani e delle sue dottrine, annoverandolo tra i suoi amici. Concluse vittoriosamente la serie di guerre che suo padre aveva intrapreso contro Roma, riconquistando Antiochia, ex capitale seleucide ed importante centro romano d’oriente. Nel 260 sconfisse l’imperatore romano Valeriano, conducendolo prigioniero insieme a migliaia di soldati romani, per i quali costruì una città vicino a Susa, sui resti di una preesistente installazione militare, chiamata Gondi Shapur (‘Esercito di Shapur’). Shapur fece immortalare le sue vittorie contro i romani Valeriano, Gordiano III e Filippo l’arabo, su quasi tutti i rilievi rupestri da lui commissionati. Questo triplice trionfo è rappresentato sulla parete della sponda destra del fiume di Bishapur. Al centro della scena Shapur è a cavallo, e calpesta il corpo di Gordiano caduto a terra. Di fronte a lui, Filippo l’Arabo si getta ai suoi piedi, in un atto di sottomissione e di richiesta di perdono. Valeriano si trova dietro il sovrano vittorioso, che lo afferra per la mano. Questa immagine è molto significativa e mostra il modo in cui l’imperatore è stato fatto prigioniero, modo confermato da un’incisione che si trova esposta alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Due notabili parti, in piedi in atteggiamento rispettoso, completano la composizione. Sopra la raffigurazione c’è un piccolo angelo nudo, che porta un diadema al re, simile al diadema che si vede nelle scene di incoronazione da parte della Fravarti, altro indicatore del fatto che bisogna interpretare queste immagini come angeli o Fravarti e non come Ahura Mazda.
Forse questo piccolo angelo nudo è influenzato dall’iconologia greca, ma ciò che è più importante è che nell’arte sasanide concetti religiosi astratti vengono rappresentati in modo vivo. Le pieghe rigide e ferme degli abiti perdono la loro forma strettamente tubolare per trasformarsi in ampiezze voluminose sotto la quale i corpi prendono vita. Si tratta dell’inizio di uno sviluppo nuovo della scultura sasanide, che porterà alla determinazione di un nuovo stile nella statuaria iranica.
L’artista iraniano di questo periodo non è interessato al realismo che è un tipico elemento occidentale per la registrazione degli eventi. Lo scopo dell’artista iraniano, al contrario, non è la fissazione dell’avvenimento, della realtà, ma la rappresentazione dell’“importanza dell’evento”, che non necessità del tempo né dello spazio. In altri termini, l’esaltazione delle vittorie dei re sasanidi serviva per incitare i giovani iraniani all’amor di patria e alla sua difesa e per amare quelle virtù superiori che possono essere attinte solo con il coraggio e la fede. Purtroppo gli orientalisti occidentali, i cui criteri estetici sono concentrati sul realismo, hanno scambiato questo movimento verso la creazione di un’immagine atemporale e aspaziale, alla ricerca di un essenzialismo astratto, per incapacità tecnica degli scultori. Invece, l’artista iraniano fa uso dell’avvenimento storico solo come punto di partenza per caratterizzare un tema metastorico e metaspaziale, che si situa solo nella mente e nello spirito dell’osservatore.
Se in alcune di questi bassorilievi si sovrappongono delle file di individui, invece di mescolarsi in una folla, essi si situano in sezioni separate. Differentemente da quanto presume Ghirshman, secondo cui “quest’arte ancora non è in grado di rappresentare gruppi di individui”, il modello di rappresentazione si concentra sull’equilibrio compositivo che sottende l’ordine della natura, che ha un carattere eterno. In questo modo, somiglianze e realtà assumono un carattere simbolico, per il quale simboli, dati e pensieri sono eterni.
Un bassorilievo che si trova su una roccia di fronte a quello precedente, sull’altra sponda del fiume, presenta influenze probabilmente rintracciabili nei fregi della Colonna Traiana relativi alla celebrazione delle vittorie di Traiano, anche se qui lo stile è achemenide. Nella figura centrale sono di nuovo riprodotte nei dettagli le tre vittorie di Shapur, mentre le 14 immagini che si sviluppano da entrambe le parti dell’immagine centrale servono a dare forza al tema raffigurato al centro. A sinistra ci sono i nobili iraniani disposti in file serrate, e a destra, nello stesso modo, i prigionieri romani.
C’è un’altra immagine di Shapur che avremmo dovuto commentare prima delle altre, quella della sua incoronazione a Naqsh-e Rajab. È probabile che questo sia il primo bassorilievo di Shapur e che risalga addirittura al tempo di suo padre Ardashir, in quanto sia lui che la Fravarti sono a cavallo, ma Shapur allunga la mano per prendere il diadema che è leggermente lontano; forse l’artista voleva indicare che Shapur non è ancora re e Ardashir è vivo. Non c’è alcuna traccia di nemici sconfitti, e dietro Shapur ci sono diversi uomini in piedi. Le vesti sono in movimento e le bande del copricapo sono arricciate. Dal punto di vista tecnico, questo bassorilievo è leggermente meno raffinato degli altri, né ha la completezza e la pienezza di quelli di Bishapur e Naqsh-e Rostam. Ciononostante, e alla luce dell’analisi generale delle immagini di Shapur I, si può affermare che esse siano tra le più rappresentative della scultura sasanide. Alcune delle composizioni e dei loro dettagli mostrano chiari elementi achemenidi, ma quello che è evidente è che si tratta di un’arte puramente e squisitamente iranica. Come giustamente afferma Herzfeld “noi non possiamo per nessuna ragione individuare l’intromissione di elementi estranei, per esempio romani, in queste opere”.
Oltre al bassorilievo, esiste anche una statua di Shapur I all’entrata della cosidetta “grotta di Shapur”, su una montagna vicino a Bishapur, in un luogo difficilmente accessibile. La statua è alta più di 7 metri ed è stata ricavata da un pilastro di roccia che collega il soffitto e il pavimento della grotta in basso ai piedi, e in alto alla corona della statua. È probabile che l’imboccatura della grotta non fosse molto ampia e che Shapur, avendola scelta come luogo per la propria sepoltura, ordinò che fosse allargata, lasciando una parte in piedi come colonna e facendola scolpire. Il volto di questa statua emana una grandezza e una maestà sovrumana; Ghirshman ritiene che sia “impossibile concepire un’immagine che più di questa ispiri nell’osservatore la grandezza di Shapur I, re d’Iran e Aniran”. Questa statua crea nell’osservatore un senso di tranquillità, familiarità e purezza che induce in chi la guarda un senso di sottomissione e di disponibilità. Forse è lo stesso sentimento che ha indotto lo scultore a sforzarsi con impegno, fiducia e tenacia, a dare a quel pilastro di roccia le sembianze di Shapur. Questa statua appare aggraziata e armoniosa anche tenendo presente le sue dimensioni e le proporzioni al di fuori del comune. Alcuni storici ritengono che la statua sia stata danneggiata durante l’invasione degli Arabi, i quali consideravano le statue alla stregua di idoli. Altri, tra cui Ghirshman, credono che la statua sia stata danneggiata a causa di un terremoto, che ha provocato la scomparsa della corona e una frattura all’altezza della caviglia, troppo sottile per reggerne il peso. Questa teoria non è compatibile con le credenze degli zoroastriani e dei mazdei d’Iran. Nella fede mazdea lo scultore non ha il diritto di separare la scultura dalla sua sostanza originale, in questo caso la montagna, perché in tal caso essa dovrebbe, nel giorno della resurrezione, essere dotata di vita. La statua era pertanto attaccata alla sua sostanza alla testa e ai piedi, ed è improbabile che un terremoto abbia potuto staccarla dalla montagna. È preferibile la prima ipotesi, anche in considerazione del fatto che la stessa operazione fu fatta nei confronti di alcune immagini che affioravano dal terreno a Persepoli.
La statua, che aveva un braccio lungo il fianco e uno piegato e che sembra stringesse in pugno uno scettro reale, è stata lavorata in modo particolarmente fine. Le pieghe degli abiti sono scolpite con tanta perizia che sembra quasi una veste di seta bagnata dall’umidità dell’acqua. Nelle pieghe c’è la medesima simmetria che si trova nelle pieghe delle vesti achemenidi, e si direbbe che lo scultore abbia voluto dare un nuovo stile alla scultura eterna, senza luogo e senza tempo, del suo tempo. È possibile che la tomba di Shapur sia stata in questo luogo. Dai documenti copti emersi dalle sabbie dell’Egitto si deduce che Shapur si sarebbe trovato a Shapur quando venne colto da una malattia mortale.
Altre sculture risalenti a quest’epoca si trovano sulle pareti di alcuni ossari in pietra o stucco. Gli zoroastriani deponevano i cadaveri dei loro morti nelle cosidette “torri del silenzio”, cioè delle torri o dei pozzi, costruite sopra un’altura, in modo che la carne potesse essere mangiata dagli avvoltoi. Le ossa venivano poi deposte in speciali urne e sepolte. In un campo nei pressi di Bishapur è stato trovato un ossario di pietra, leggermente danneggiato, le cui quattro facciate sono tutte scolpite. Le immagini raffigurano rispettivamente: due cavalli alati che trainano un disco solare, o il dio Mitra, poiché il dio deve scendere dal cielo a donare nuovamente la vita eterna all’uomo nell’era della resurrezione; la divinità Zurvan, che nel manicheismo è “il tempo senza fine”, l’essere eterno; il dio custode del fuoco sacro ; sul quarto lato è ritratta Anahita, che riconosciamo dalla coppad’acqua che tiene in mano e dai pesci. È possibile che questo ossario appartenesse a un nobile della corte di Shapur.
I cambiamenti occorsi nel periodo di Shapur I furono tanto grandi e significativi che ebbero una profonda influenza anche nelle opere delle epoche successive. In tutta questa produzione artistica, sebbene qualche influenza straniera sia ravvisabile, è lo spirito iranico a dominare, come ammesso anche da tutti gli storici dell’arte orientale.
Il bassorilievo di Shapur, che rappresenta l’incoronazione di Bahram I, figlio di Shapur, costituisce l’apice del bassorilievo dei primi secoli della dinastia. La nobiltà e dignità con cui allunga la mano per afferrare il diadema che ha di fronte è simile alla nobiltà del dio che glielo porge. I tratti del volto, la sua aura spirituale, l’equilibrio compositivo, il rilievo dell’immagine e il suo essere in armonia con le proporzioni del cavallo, unitarie e maestose, rendono quest’opera un capolavoro assoluto della scultura sasanide. La “simmetria asimmetrica”, per cui anche i nastri della corona sono arricciate in due versi opposti, danno l’idea della sacertà e della solennità religiosa associata alla cerimonia dell’incoronazione da parte del dio. Altre rappresentazioni a bassorilievo di Bahram ritratto nella sua vita regale – dal trionfo per la vittoria, alla sua intronazione, fino a momenti di caccia e guerra – sono tra i momenti più alti del bassorilievo sasanide e latori di specificità prettamente iraniche.
Nei laboratori reali sasanidi si producevano differenti manufatti artistici adatti ai diversi strati sociali. Tutte le tecniche, come lo stucco, l’affresco, la ceramica, la metallurgia, la tessitura e il ricamo, l’oreficeria e tante altre arti ancora, mostrano la grandezza di spirito dell’orgoglioso popolo di quel periodo. Eppure, è il bassorilievo su pareti di roccia a rappresentare il collegamento con l’antica tradizione iranica, ed è questo che lo rende l’arte per eccellenza dell’epoca sasanide.
Tra i sovrani sasanidi, Bahram II (276-293) fu quello che maggiormente diede impulso alla scultura rupestre. A Naqsh-e Rostam, dove si trova un’incisione elamita ancora parzialmente visibile, a fianco dell’incoronazione di Ardashir I, si può trovare Bahram tra i membri della sua famiglia. È il solo re sasanide immortalato insieme alla regina e agli altri suoi parenti. Anche questa immagine, come le altre che hanno una forte caratterizzazione religiosa, è composta secondo la disposizione della simmetria asimmetrica, intorno a un’asse centrale. Ciò che è evidente, è che il bassorilievo di Bahram II è collegato alla tradizione precedente, della quale è rappresentante anche la raffigurazione delle sue battaglie vittoriose contro i nemici . Nell’immagine di Bahram sul trono, ancora nel quadro di una composizione simmetrica, Bahram è assiso in posizione frontale e porta sul capo una corona con ala di falco reale, che è un attributo del dio della vittoria Verethragna. Sui due lati del re sono disposti simmetricamente quattro personaggi che portano i loro rispetti al sovrano, anch’essi ritratti frontalmente, con l’eccezione dei volti, che guardano il re, e dei piedi. Le pieghe degli abiti sono le stesse delle immagini di Shapur, mentre la posizione frontale è la stessa delle opere arsacidi ed è una caratteristica dell’arte iranica orientale che divenne generalizzata sotto i Sasanidi.
A Sar Mashhad si trova un altro bassorilievo di Bahram II, in cui il re è raffigurato nell’atto di tagliare in due un leone, nelle due fasi dell’atterramento e del taglio vero e proprio. Dietro al re si scorgono in piedi la regina e altri due membri della famiglia reale. L’immagine della regina non ha alcun tratto femminile: i riccioli non sono in ordine né è evidente il contorno dei seni, ma all’immagine si è cercato di attribuire un senso di tridimensionalità. La sacralità della donna presso gli antichi iraniani impediva che venisse rappresentata; perciò sembrerebbe che lo scultore abbia deciso di dare alla regina dei tratti mascolini. Ghirshman ritiene che che l’artista non fosse in grado di riprodurre il rilievo dei seni e lo svolgimento dei riccioli, cosa che non è accettabile, poiché lo stesso scultore che è riuscito a rappresentare così bene l’audacia e la potenza del’attacco di Bahram al leone, utilizzando i tratti con una forza tale che tutti il movimento è concentrato sul re, sarebbe stato di certo in grado di dare un po’ di rilievo ai seni e alle curve dei riccioli. L’artista invece non era interessato a manifestare la bellezza esteriore, quanto piuttosto quella interiore. Nel 1957 è stato scoperto un altro bassorilievo di Bahram nella zona di Guyum, nel Fars, che raffigura, anche se in maniera incompleta, la sua incoronazione.
La rappresentazione dell’incoronazione a cavallo è andata scomparendo all’incirca dal quarto secolo in poi, soppiantata dalla versione “in piedi”. L’incoronazione di re Narse, figlio di Shapur I, a Naqsh-e Rostam, e del suo successore Bahram III, ne sono degli esempi. Nell’incoronazione di Narse, il re riceve da Anahita un diadema, mentre suo figlio Bahram ancora bambino è in piedi tra le due figure e due membri della corte attendono in piedi dietro a Narsete. La divinità Anahita è più grande del re e le sue vesti increspate scendono dal corpo fino a terra, caratteristica questa che permette di identificare la dea, insieme alla forma dei suoi riccioli. Dal punto di vista della proporzione, questa immagine non ha la forza e la bellezza di quelle di Shapur e Bahram II (Bahram Gur), ma l’opera è comunque realizzata con uguale tecnica e perizia.
Un altro bassorilievo di Naqsh-e Rostam ritrae Hormozd II al galoppo mentre disarciona il nemico con una lunga asta. L’immagine appare mutuata da quella di Ardashir a Firuzabad, in cui il re è rappresentato in modo molto simile.
L’immagine del trionfo di Shapur II sui Kushana è invece differente dai bassorilievi precedenti. Qui, la composizione si sviluppa orizzontalmente, lungo due linee orizzontali sovrapposte. Al centro della linea superiore appare Shapur, seduto frontalmente con un’aria di forza che ha qualcosa di magico, mentre con la mano sinistra regge l’impugnatura della spada che è posta verticalmente lungo l’asse del suo busto. La raffigurazione, il cui rilievo non emerge molto dal livello della roccia, potrebbe essere stata scolpita seguendo le linee di un affresco preesistente. A destra del re, cioè a sinistra dell’osservatore, si trovano i notabili della corte, in piedi, con le dita piegate in segno di sottomissione. Lungo la linea inferiore, nella stessa parte, un palafreniere conduce il cavallo del sovrano mentre la servitù è dietro di lui con le braccia conserte. Nella fila sopra, alla sinistra del re, i soldati iraniani conducono i prigionieri kushana con le mani legate al cospetto del sovrano, mentre sotto dalla stessa parte il boia porta al re la testa mozzata del re nemico; dietro si vedono altri prigionieri in catene. L’uso di portare la testa del nemico al re o al comandante è di origine sarmata. I Sarmati erano imparentati con i Persiani e divennero tributari degli Achemenidi e poi dei Sasanidi.
Tra gli altri frammenti di questa epoca, si menziona la testa in pietra di un cavallo conservata al museo di Berlino, la cosiddetta “testa di Nezamabad” (dal luogo in cui venne scoperta). Altri due pezzi, la testa di Qobad e la testa di Bahram Gur, sono stati rinvenuti a Hatra in Iraq, e si trovano oggi nel museo archeologico di Baghdad.
Dalla fine del terzo secolo, i sovrani sasanidi cominciarono ad essere particolarmente interessati all’ovest del paese. Dopo Narsete, si smise di eseguire rilievi nel Fars, probabilmente a causa del fatto che la Via della Seta passva nelle vicinanze di Kermanshah e Taq-e Bostan, che secondo Herzfeld era considerata “la porta dell’Asia”, fu oggetto di un nuovo interesse.
Nel bassorilievo dell’incoronazione di Ardashir II (379-383), il dio incoronante e il re sono in piedi, e dietro Ardashir si scorge Mitra, che con il barsom benedice e garantisce la vittoria al re. Sotto il dio incoronante c’è il re nemico caduto, mentre Mitra è seduto su un fiore di loto. Il loto era chiamato dagli antichi iraniani “sole del crepuscolo”, per il fatto che si apre di sera mentre rimane chiuso di giorno. Ci sono altre tradizioni iranico-orientali in quest’opera, come la posizione frontale del busto del re e delle divinità, mentre i volti sono di profilo. Anche i piedi sono ritratti di lato, aperti nelle due direzioni. La figura a terra, sembrano suggerire i vestiti, simboleggia l’impero romano. Il nemico e il fiore appaiono affiorare dalla superficie della pietra, mentre le tre figure principali sono scolpite in profondità, tanto che sembrano avere una consistenza indipendente dal contesto, come se fossero disposte su una striscia sottile. Quest’opera, dal punto di vista della tecnica, non raggiunge gli stessi livelli delle immagini di Shapur e Bahram. Qui l’immagine del re, come quella degli dei, del loto e del nemico, non ha grande profondità tanto da sembrare disegnate. Pertanto, è possibile ipotizzare che l’artista abbia voluto eseguire far emergere una differenza tra bassorilievo e dipinto, che in quel periodo stava conoscendo una certa fioritura. Quest’opera ha molto a che vedere con le opere in stucco, ma segue le tradizioni della scultura sasanide per quanto riguarda la riproduzione dei particolari. Decorazioni scolpite e decorazioni in stucco si trovano le une accanto alle altre, in equilibrata combinazione, nella grotta principale di Taq-e Bostan, e sono state attribuite a Piruz (459-484) e a Cosroe II Parviz (590-628) rispettivamente da Endmann e da Herzfeld. Il complesso delle sculture del sito è l’ultimo esempio di bassorilievo sasanide. Fondamentalmente, Taq-e Bostan doveva avere una facciata a tre iwan, la quale non fu tuttavia mai completata. A destra c’è solo un piccolo iwan con l’immagine di Shapur III a fianco di suo padre Shapur II, noto con il soprannome di Zu’l-ektaf. La parete che chiude la grotta è divisa in due parti: la parte alta raffigura l’incoronazione del re eseguita da due divinità, la Fravarti e Anahita, mentre nella parte bassa c’è il sovrano a cavallo che scaglia la sua lancia verso il nemico. Dal punto di vista della tecnica scultorea e dell’attenzione ai particolari, queste immagini vanno oltre il semplice bassorilievo e si avvicinano molto alla statua a tutto tondo. Anche qui, il re e gli dei sono ritratti di fronte, a parte la statua equestre, che è di profilo (Fig. 19)
La produzione di bassorilievi sulle pareti di una grotta, anziché sui fianchi di una montagna, tipica degli ultimi sasanidi, si deve probabilmente a influenze iranico-orientali, forse kushanidi. D’altra parte, sappiamo che il palazzo di Shapur a Bishapur aveva 64 nicchie delle cui decorazioni e immagini sappiamo assai poco. Sappiamo invece che il palazzo di Nissar aveva delle nicchie simili che ospitavano le immagini dei sovrani, una soluzione che troviamo anche nella fortezza di Tuprak, nella Corasmia. Le reciproche influenza delle arti dell’Iran occidentale e orientale nel periodo sasanide sono notevoli e arricchirono la tradizione artistica sasanide. Ogni elemento straniero che toccava l’arte iranica veniva trasformato dagli artisti di questa terra e profondamente iranizzato.
Sui due fronti laterali della grotta di Taq-e Bostan sono raffigurate a rilievo le riserve di caccia reali. Sulla superficie a sinistra c’è il dipinto di parchi o tenute di caccia circondati da alte vette. Una barca trasporta il re che in piedi colpisce un cinghiale con una freccia. Altre barche seguono quella del re, trasportando musici e cantanti, mentre le prede sono portate a dorso di elefante. Sulla parete a destra sono rappresentate delle altre scene di caccia al cervo. Le pitture di Susa, che raffigurano una battuta di caccia al cervo, sono molto simili a questa. Lo stile descrittivo di queste immagini è pieno di vita e movimento ed è senz’altro legato a quello di Susa. Le scene rappresentate sono, in ordine, le seguenti. Il re a cavallo, protetto da un parasole, si accinge ad andare a caccia, mentre dei musici si esibiscono su un palco. In alto si vede il cavallo del re galoppare, mentre nell’altra immagine la caccia sembra finita e il re conduce il cavallo a passo d’uomo con una briglia in mano. In questi dipinti riconosciamo un’estetica del dettaglio che sarà tipica della pittura islamica dell’Iran del IX e X secolo.
La necessità di narrare gli eventi e spiegare i particolari, insieme all’inclinazione alla novità portò alla riduzione del rilievo fino a quasi farlo scomparire sulla superficie della roccia. Qui c’è un altro elemento, una cosa che sembra una visione a volo d’uccello, dall’alto. Le palizzate che delimitano questa tenuta sembrano scavate profondamente nella roccia e tutto lo svolgimento della scena appare visto dall’alto. Questo stile verrà successivamente ripreso nello stile pittorico safavide delle scuole di Herat e di Esfahan. La successione ordinata degli eventi è presente anche nella pittura dei secoli XVII–XX, malgrado gli artisti che la produssero fossero completamente all’oscuro di questi bassorilievi. D’altra parte, gli scultori di quest’opera erano competenti in anatomia animale, come si deduce dal modo perfetto con il quale li ritraggono, soprattutto gli elefanti, così realistico da aver pochi paragoni nel mondo orientale.

 Il mosaico

L’assemblaggio di tessere di ceramica, o come si dice nelle lingue europee, il mosaico, costituisce una delle tecniche degli artisti antichi per la decorazione di pareti, pavimenti o soffitti. Presso i Sumeri e in Mesopotamia, così come nell’Elam, il mosaico era costituito da piccoli coni che venivano smaltati e colorati sul lato piatto, per poi essere attaccati sull’intonaco fresco. Nell’antica Grecia e a Roma venivano usati dei quadratini colorati di terracotta, di pietre colorate o di ceramica smaltata, con cui si producevano disegni piatti come nella pittura. Dopo la devastante invasione di Alessandro, si diffuse l’uso di tessere simili a quelle greche, al posto di quelle dell’antico modo sumerico-elamitico, che era diffuso anche nel periodo arsacide (anche se di questo periodo non è rimasto molto). Nella Bishapur di re Shapur il mosaico era molto usato per la decorazione dei muri dei palazzi, nelle volte come nei pavimenti, o disposti lungo ampie strisce che collegavano le pareti al pavimento, sul quale erano spesso distesi grandi tappeti, che si suppone riprendessero il disegno dei mosaici delle pareti.
Spesso i mosaici alle pareti raffiguravano le donne della corte, vestite in stile iranico-romano, intente allo svolgimento di qualche lavoro, o in posizioni diverse, ad esempio adagiate su un cuscino, o vestite di lunghe vesti, con diademi e mazzi di fiori, o occupate a tessere scialli, donne danzanti, menestrelli, suonatori e altre figure i cui tratti sembrano indicare appartenenti alla nobiltà (Fig. 20). Lo stile di queste opere suggerisce che siano opera dei prigionieri romani portati da Shapur, oppure imitazioni di manufatti di Antiochia prodotte in Africa. Quale che sia l’origine, se furono artisti iraniani, lavorarono con il contributo e l’assistenza di artisti greci, poiché non fa parte della tradizione iranica la rappresentazione di donne nelle opere d’arte. Nonostante questo, nessuna delle opere in questione è imitazione pedissequa dei mosaici di Antiochia; si può rilevare un certo gusto iranizzante nei tratti del volto, nelle acconciature, nel vestiario e addirittura nella postura e nella forma del volto e del mento. Tra l’altro, il ritratto romano è di solito primo piano o mezzo busto. Questi mosaici non sono nemmeno privi di una certa influenza partica; i volti senza collo fanno parte di una tradizione che si ritrova nelle piccole figure ritrovate a Siyalk e che risalgono all’epoca arsacide, e che si diffusero fin nelle zone di confine ai limiti dell’Iran. Si può concludere che l’arte di Bishapur sia opera in cui parteciparono artisti romano-siriaci e iraniani.

 Gli stucchi

Il più antico lavoro decorativo a stucco sasanide è stato trovato nel palazzo di Ardashir a Firuzabad. Le decorazioni, che si trovano nelle modanature sopra le porte d’ingresso o sulle volte, sono copie delle decorazioni egiziane che si trovano sopra alcune porte a Persepoli. Esse sono particolarmente semplici e i loro rilievi non sono molto profondi. Quindi, begli stucchi si trovano nelle nicchie del palazzo di Shapur I a Bishapur. Nell’esemplare conservato presso il Louvre, i due lati della nicchia sono di fatto delle colonne quadrangolari con un capitello semplice, sormontate da una nicchia semicircolare; sui due lati delle colonne appaiono due strisce verticali decorate con delle greche, che arrivano fino al fregio sopra la volta, la quale al di sopra è decorata con un intricato arabesco di foglie, abbellito da quattro anelli arabescati. Queste nicchie stuccate erano in tutto 64 e forse ospitavano delle statue, sebbene nessuna sia stata in realtà rinvenuta, ed è anche possibile che ospitassero dei servitori in piedi, pronti al servizio.
La maggior parte degli stucchi è del periodo successivo a Shapur I, più o meno il III secolo. Molti di essi, e particolarmente gli stucchi di Kish, in Mesopotamia, hanno ispirato gli stucchi del periodo islamico. Su una tavoletta stuccata trovata a Kish e che oggi si trova al museo di Baghdad, è rappresentata una donna a mezzobusto, incorniciata da foglie e fiori. Il diadema che indossa indica che si tratta probabilmente della regina o della figlia del re, e la composizione segue un modello diffuso in Asia nei secoli precedenti.
Su una grande tavola stuccata incorniciata da mattonelle di stucco che descrivono un motivo ripetuto, trovata a Chahar-Tarkhan nei pressi di Tehran, è rappresentata una scena di caccia del sasanide Piruz (459-484), ma la sua struttura compositiva è completamente diversa da quella precedente. Qui sono stati utilizzati i principali metodi dello stucco: nell’immagine centrale le due figure sono prodotte da un unico stampo e sono stampati anche gli elementi ornamentali. Nella parte più interna c’è una teoria di rose di 12 petali, simili a quelle che ornano le cornici di Persepoli e che forse hanno origini egiziane. Nella parte centrale è raffigurato un melograno in rilievo, che è epifania di benedizione e abbondanza, adagiato su due bellissime ali che lo avvolgono in spira, creando un’immagine che rassomiglia a quella di un tappeto. Le linee delle ali e delle foglie sono tratteggiate con precisione, mentre l’arabesco del disegno più esterno descrive un’andatura annodata nella quale da ciascun nodo emerge un piccolo aggraziato fiore. Questo stucco è esposto al museo di Philadelphia. Nel motivo ripetuto che si trova al suo centro sulla destra vediamo lo Shah attaccato da due cinghiali, e a sinistra vediamo il re che prevale sugli animali, mentre al centro c’è un gruppo di cinghiali che fuggono. In questo stucco, i personaggi e gli animali sono assiepati in file parallele nella parte alta della scena. La densità della rappresentazione e la minore immobilità lo pongono come a un livello di eccellenza diverso dal resto degli stucchi sasanidi.
Abbiamo anche il ritratto in stucco di un principe il cui stile è assai semplice e la cui tecnica consiste fondamentalmente nell’allineamento di punti; il volto è probabilmente quello di Qobad I (488-498). Nello stucco sasanide era molto usato l’arabesco vegetale, formato da fiori e foglie riprodotti ritmicamente, con boccioli e motivi alati al centro di anelli composti da file di punti. In un iwan di Ctesifonte sono stati identificati 18 tipi diversi ascrivibili a questo motivo ornamentale, e in un palazzo sasanide di Kish ne sono stati trovati altri 40. Nel museo archeologico di Berlino è conservato uno stucco sasanide che presenta numerosi melograni alati, ricavati con eccezionale raffinatezza a partire da un unico stampo; i melograni sono disposti in file parallele in modo che ciascun melograno si trovi tra le ali del melograno della fila sottostante. Inoltre, sempre a Berlino, sono conservate due splendide tavolette, una delle quali introduce il motivo dell’arabesco che sarà tipico dell’arte islamica, con fiori e piante stilizzate e melograni; l’altra presenta invece due ali con una iscrizione al centro, posta nel mezzo di un cerchio composto da 36 punti a rilievo, il tutto nel mezzo di un arabesco di rami e foglie.
In una tavola rettangolare rinvenuta a Ctesifonte, anch’essa conservata a Berlino, c’è l’immagine a rilievo di un orso che fugge in un paesaggio montano, dotato di un certo realismo. Mentre le montagne sono ritratte nel modo semplice e schematico tipico dell’arte sumerica ed elamitica, la vegetazione che fa da sfondo all’orso è abbastanza realistica. In una tavoletta, invece, conservata nel museo archeologico di Tehran, la testa di un cinghiale è posta nel centro di due cerchi concentrici distanziati da 24 cerchi più piccoli. Questa composizione si trova al centro di un motivo ornamentale di rami e foglie. Il reperto risale al I secolo ed è stato trovata a Damghan.
Nella tavoletta di Ctesifonte, altro esemplare di opera risalente al I secolo e conservato a Berlino, si trova l’immagine di un pavone al centro di un cerchio. I punti o i piccoli cerchi che circondano l’uccello sono stati trasformati in piccole unghie circolari.

Monete, sigilli e corone
Monete

Le monete sasanidi si differenziano ciascuna a seconda del sovrano del quale portano l’effigie e dal quale erano battute. Pertanto, esse sono anche l’unico strumento completo in grado di darci la cronologia di questo periodo. Su ogni moneta c’è il nome del sovrano che he ha ordinato la produzione, in pahlavi sasanide o medio persiano, ragione per cui gli storici sono in grado di datarle precisamente. L’arte numismatica si sviluppò allo stesso ritmo delle altre arti sasanidi ed ebbe una sua evoluzione, che ci aiuta a comprendere le varie fasi dello sviluppo artistico sasanide in generale. Inoltre, l’iconografia delle monete riproduce il tipo di corona indossata dai vari re, fino al tempo di Piruz. Le corone erano di fogge molto differenti e di solito sopra la corona si trovava un’appendice sferica; le corone erano merlate e spesso avevano delle ali. Talora la superficie della corona, come nel caso di quelle della Fravarti, di Mitra, di Verethragna e di Anhaita, presentava delle fessure verticale parallele. Successivamente, la grande sfera venne sostituita da una sfera più piccola, a volte da una mezzaluna, accompagnata da alcune stelle. Con l’eccezione di Bahram II, la cui immagine era stampata sulla moneta insieme a quella della regina, le monete avevano solo l’immagine del re.
La tecnica dell’incisione conobbe dei notevoli cambiamenti nel corso dei quattro secoli di dominio sasanide. Nelle sue fasi iniziali, questa tecnica rivela una grande bellezza e precisione; le proporzioni dei corpi sono molto accurate e le figure sono rappresentate con significativo realismo. Nei secoli III e II prima dell’Islam la tecnica non subì cambiamenti notevoli, ma dalla fine del II secolo il tratto appare instabile, approssimativo e meno definito. Nel I secolo prima dell’Islam si il periodo di declino giunge alla fine e si assiste a una rinascita. Queste monete ebbero valore durante tutto il primo secolo dopo l’Islam anche presso i governi musulmani; il nome della moneta era dirham (dracma) e le monete erano di solito in argento. L’immagine delle monete era di solito di profilo, con l’eccezione di una moneta che ritrae la moglie di Cosroe I, nota con il nome di “amata signora”; di solito le monete riproducevano solo un mezzobusto coronato; in una moneta, Bahram II appare raffigurato fianco a fianco con la moglie, e con i figli di fronte.
I metodi di comunicazione artistica nel III e IV secolo d. C. conobbero una grande crescita. Le opere prodotte, dal punto di vista della qualità, erano superiori a quelle create nelle epoche precedenti; nel II secolo assistiamo a un declino nella qualità artistica e nella tecnica, e nonostante il tentativo di recuperare la creatività e la qualità di un tempo, ciò che veniva prodotto erano mere imitazioni di esemplari antichi. Questo declino ebbe luogo in quasi tutte le forme artistiche, con l’inclusione del bassorilievo, dell’oreficeria e dell’incisione. Cionondimeno, l’arte sasanide si deve considerare un fenomeno unitario nel suo complesso, con caratteristiche specifiche e uniche, dotata di un’omogeneità e di una continuità che non sono riscontrabili in altri periodi. Questo stesso fatto rivela l’unità del paese, la solidità dello stato e della società e l’unità di fede e credo. Quella sasanide è un’arte nazionale, puramente iranica, e le monete e i sigilli che sono giunti fino a noi, così come i recipienti metallici, mostrano chiaramente il suo valore estetico. L’unità era tale che i modelli iconografici sasanidi, cioè le incoronazioni, le scene di caccia e guerra e le feste, furono riprodotti anche dai fabbri, dagli orafi e dai ceramisti che producevano oggetti d’uso quotidiano, cosicché questi segni della grandezza e della maestà della corte sasanide entrarono a far parte del repertorio visuale di tutta la popolazione.
Le monete sasanidi erano di solito d’argento. Quelle d’oro, chiamate dinar, erano pezzi assai rari. Quello che sappiamo dai testi di numismatica è che conosciamo solo una moneta d’oro sasanide di re Cosroe II Parviz, del diametro di 2,2 cm., oggi di proprietà della American Numismatic Society di New York. A parte le monete di Ardashir I, tra loro differenti, le monete portavano l’effige del re che le facev battere. Le monete di Ardashir risalenti agli inizi del suo regno non sono prive di simiglianze con quelle partiche, con la differenza che queste riproducevano il profilo sinistro del sovrano (con l’eccezione di alcuni re ritratti frontalmente, come Mitridate III, Artabano II e Vologese IV) e che sull’altra faccia portavano il ritratto di Arsace, fondatore eponimo della dinastia. Le monete di Ardashir, invece, ritraevano il profilo destro del sovrano e presentavano sul retro un altare del fuoco simile a un tavolo con una gamba sola. Le successive monete di Ardashir hanno una semplice corona con una sfera sopra, mentre il braciere sull’altro lato ha una forma cubica. A eccezione della moglie di Cosroe I, che è ritratta frontalmente, tutte le altre monete sasanidi ritraggono il profilo destro, forse anche questo una rivendicazione del collegamento con gli Achemenidi, le cui monete portavano ritratti dei re di profilo nello stesso verso.

 Sigilli e pietre preziose

I sigilli sasanidi erano normalmente fatti con pietre preziose, ed erano tavolette piatte o semisfere. Si trattava di solito di granati scuri o chiari, giada, agata, agata rossa chiara e scura, lapislazzulo, corniola yemenita trasparente e opaca, rubini, onice, a volte con macchie rosse, cristallo di rocca. Per quelli piatti di solito si utilizzava l’onice, mentre le altre pietre erano utilizzate per i sigilli semisferici. Spesso i sigilli erano posti al posto delle pietre preziose nei castoni degli anelli. Normalmente le figure sui sigilli erano incise, altre volte erano a rilievo e potevano avere il nome del proprietario come non averlo. Tuttavia abbiamo dei sigilli di notabili sasanidi che hanno solo un’iscrizione e sono privi di figure. Le immagini di solito erano il ritratto del proprietario, con l’eccezione di casi particolari, in cui a essere incisi erano animali, una mano, cavalli alati, teste di animali con più corpi (ad esempio un gruppo di cervi a una sola testa, o due camosci uniti dalla parte posteriore). Presso la Biblioteca Nazionale di Parigi è conservato un sigillo che rappresenta una divinità tricefala; altri sigilli hanno iscrizioni ornamentali simmetriche (ancora non decifrate) poste tra due ali, come quelle dello stucco di Ctesifonte, in cui è impresso il segno che è probabilmente l’emblema della città. Alcuni di questi sigilli hanno un foro nella parte posteriore, che serviva ad alloggiare una catenella per mezzo della quale venivano appesi al collo. Tra i motivi tipicamente sasanidi troviamo: il re che caccia a cavallo, il signore del sole sulla sua cavalcatura, banchetti e feste, incoronazioni, il re che combatte con un serpente a sei teste (invenzione iranica), e il dio Mitra trainato da due cavalli alati. Il dio del fuoco è a volte rappresentato nella forma del volto di una donna intorno al volto della quale splende una fiamma, posta sopra un braciere. Esemplari di questi stucchi sono sparsi tra i musei europei ed americani.
I sigilli non erano riservati esclusivamente ai sovrani e ai notabili,anzi si può dire che tutte le classi, dai sacerdoti ai politici, dai commercianti agli artigiani, ricchi o poveri che fossero, avevano un sigillo. Il sigillo faceva le veci della firma. Alcuni sigilli, in quantità considerevole, riportano una frase di invito alla fede negli dei, che in pahlavi sasanide si legge “epstadan o yazdan”. I sigilli venivano impressi su terra cruda o stampati con inchiostro su pelle o pergamena. Il più bell’esemplare di questi oggetti è un gioiello che si pensa appartenuto a Qobad I, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, sul quale è incisa l’immagine di una regina che indossa una corona merlata simile a quella di Shapur II, insieme alla figura intera di Bahram IV, in piedi dietro al suo nemico, con una lancia in mano l’altra appoggiata al fianco. Un altro esemplare di sigillo è meritevole di attenzione. Si tratta di un sigillo di agata di colore neutro sulla quale è incisa una mano con le dita che si trasformano in foglie, che tiene un bocciolo tra l’indice e il pollice. La mano è inscritta in un cerchio che all’altezza del polso prende la forma di una briglia, e fa parte della collezione Vass Hunn.

 Corone

La corona di Ardashir I è inizialmente molto semplice: una sfera sopra la testa molto simile al copricapo arsacide; tuttavia negli anni successivi camba in modo significativo, fino ad avere una piccola sfera nella parte frontale, di solito costituita dai capelli del sovrano così acconciati. Sulle prime corone, ai due lati, spesso appaiono due rose a otto petali abbellite da perle.
Shapur I, figlio di Ardashir I, è raffigurato con una corona con quattro lunghi merli sui due lati e sulla parte posteriore, e sul davanti una sfera più grande di quella della corona di Ardashir. La corona ha due ali pendenti che coprono le orecchie del re. La corona di Hormozd I è invece molto semplice, avendo solo dei piccoli merli nella parte posteriore. La sfera sul davanti è simile a quella di Ardashir I, mentre quella di Shapur I è posta tra i merli.
La corona di Bahram I è una rivisitazione di quella di Shapur I, con dei merli a forma di lunghe foglie appuntite, simili alle lingue di una fiamma, e i tipici copri-orecchio pendenti; sopra, ha una sfera più alta di quella che si vede sulla corona di Shapur. Anche la corona di Bahram II è simile alle corone con la sfera di Ardashir I e Hormozd I, con la sfera leggermente spostata in avanti, con i copri-orecchio inclinati verso la parte posteriore, in orizzontale. Sulle sue monete, Bahram II è spesso rappresentato insieme alla regina, abbigliata con un vestito che le copre il corpo fino al mento, e con il figlio.
Bahram III ha una corona il cui bordo inferiore presenta una fila di merli corti, mentre il margine alto è ornato da due grandi corna di cervo (o copie d’oro di corna di cervo) sui lati; la parte anteriore della corona, tra le due corna, ospita la grande sfera tipica dei sasanidi. Il rilievo delle monete di Bahram III non è molto pronunciato, non sono chiaramente visibili, pertanto, le fini decorazioni della corona.
La corona di Narsete ha una fila di merli rettangolari lungo il margine inferiore, mentre sopra, là dove si trova la testa, ha quattro grandi merli a forma di foglia, simili a delle fiamme con molte lingue. Qui, la sfera è situata al centro della foglia frontale. La corona del figlio Hormozd II ha dei grandi grani sferici al posto dei merli rettangolari, sopra i quali si vede un falco con la testa tesa in avanti, che tiene con il becco un melograno i cui grani sono formati da delle grosse perle; la sue ali puntano in alto e sono piegate all’indietro, mentre una grande sfera è appoggiata sul collo del volatile.
Le corone di Shapur II e Ardashir II sono, con solo delle piccole differenze, simili a quelle di Shapur I e Ardashir I. I merli della corona di Shapur II sono più pronunciati e sporgono maggiormente verso l’esterno, mentre sotto di essi, sul margine, ci sono una serie di decorazioni d’oro le cui spire sembrano proiettarsi in avanti. In questo caso, la sfera è posta sopra i tre merli frontali. La corona di Ardashir II è simile a quella di Ardashir I, con solo delle perle incastonate nel margine; c’è forse una connessione tra i nomi dei sovrani e la somiglianza tra le corone.
La corona di Shapur III è differente dalle altre. La sfera sasanide che è sostenuta da un supporto di forma tubolare la cui parte superiore più larga di quella inferiore, e assume la forma di una larga striscia che si adatta alla forma della corona. Essa è decorata con motivi ripetuti piuttosto semplici, mentre dietro alla sfera si aprono due ali che si nascondono sotto la sua grande dimensione.
Da questo momento in poi si possono osservare nella forma della corona sasanide significativi cambiamenti, che comprendono l’introduzione, sulla parte frontale, di una mezzaluna la cui parte concava è rivolta in alto. In alcune corone si vede anche una stella proprio tra le due punte della mezzaluna,mentre in altre la mezzaluna e la corona si trovano tra due foglie di palma stilizzate, che ricordano delle ali con le punte rivolte verso l’alto, piegate verso la mezzaluna. Tra le corone di questo tipo la corona di Yazdegard I, con solo la mezzaluna sul davanti; il corpo della corona è decorato in modo semplice, mentre la sfera è più piccola rispetto a quella dei suoi predecessori, ed è posta sulla punta del copricapo, che finisce dietro con una piccola coda. La corona di Bahram V, merlata come quelle di Shapur I e II, ha una mezzaluna sopra il copricapo e una piccola sfera nel centro dell’astro.
Le corone di Piruz I e Qobad I hanno un ampio merlo nella parte posteriore e una mezzaluna sul davanti. Una mezzaluna più grande, al centro della quale si trova la sfera sasanide, è montata sulla punta del copricapo. La differenza tra le due corone è nella mezzaluna con la sfera, che nel caso di Qobad è leggermente più piccola. La corona di Vologese ha la medesima forma, anche se ha quattro merli simili a quelli della corona di Shapur I, con la punta leggermente arrotondata, e la mezzaluna e la sfera un po’ più grande. Le altre corone, con l’eccezione di quella di Cosroe II Parviz, Purandokht, Hormozd V e Yazdegard III, rispettano tutte grosso modo il modello con la mezzaluna frontale e la sfera (o la stella al posto della sfera), con o senza merlatura, che può essere larga o stretta. La corona dei quattro sovrani appena menzionati, invece, presenta una specie di staffa, posta tra due ali rivolte verso l’alto e con la punta diretta verso la mezzaluna, che regge la figura con la stella o la sfera.
Abbiamo descritto piuttosto dettagliatamente le monete sasanidi per il fatto che queste rimasero correnti e accettate per tutto il I secolo dell’era islamica presso i governi musulmani; per questa ragione simboli come la mezzaluna e la stella divennero simboli islamici, che si trovano in molti motivi ornamentali di diverse epoche e luoghi della storia dell’Islam. Le bandiere di alcuni paesi musulmani, che portano impressa la mezzaluna e la stella, sono state influenzate da questa tradizione sasanide. È il caso di ricordare che la corona sasanide era un oggetto molto pesante, ragion per cui i sovrani non la indossavano, ma la appendevano con una catena sulla parte alta del trono sedendo visi sotto. In altre occasioni il sovrano indossava un copricapo con delle corna di montone, come nel corso della battaglia di Amida con Giuliano l’Apostata. Come emerge nella storia di Ardashir-Babakan, il montone nella cultura persiana è simbolo della Fravarti della vittoria e della gloria divina. L’atto di appendere la corona al trono, introdotto dai Sasanidi, rimase in uso anche dopo la fine della dinastia in altre aree, in particolare a Bisanzio.

 Metalli e vetri

La fabbricazione del vetro ha una lunga tradizione nell’Iran antico. La produzione di vetro era diffusa in epoca elamitica nel III millennio a. C., nella regione di Susa e sono stati ritrovati sigilli scolpiti e incisi in pietra e vetro. In epoca sasanide, quest’arte così radicata in Persia trovò nuovo impulso, e non è possibile sapere se in questa rinascita ebbero un qualche ruolo maestranze straniere. Si tratta di un’ipotesi non confermabile alla luce dei pochi oggetti rinvenuti fino a oggi. La forma e le decorazioni dei reperti mostrano che gli artisti persiani utilizzavano la soffiatura, e imitavano i piatti metallici che erano molto comuni. Un contenitore di vetro soffiato, a forma di pera, che ricorda le brocche d’argento sasanidi o le terrine di ceramica smaltata conservate nel Museo archeologico di Tehran, che risalgono probabilmente al periodo che coincide con la nascita dell’Islam, nel VII secolo d. C. Un altro oggetto simile, conservato al museo di Berlino, è una coppa dello stesso periodo con immagini di cavalli alati sbalzati, inscritti in un piccolo cerchio sulla superficie esterna. Un altro importante reperto dello stesso tipo è stato scoperto in un edificio di Susa, dove ci sono numerosi affreschi di epoca sasanide. Oltre al vetro soffiato, sono stati ritrovati vetri stampati di colore rosso o verde, che possono essere avvicinati alla coppa aurea di Cosroe, conservata a Parigi. A sud-ovest di Qazvin, nell’area di Daylaman, sono state rinvenute alcune coppe di vetro fabbricate con tecniche diverse. A Susa, ancora, sono stati trovati dei vetri la cui superficie presenta dei piccoli rilievi, che serviva ad alloggiare stabilmente la base dei bicchieri. A Daylaman lo stesso risultato era ottenuto tracciando delle linee sbalzate o delle strisce a rilievo verticali nella parte bassa del contenitore. I cavalli alati della coppa di Berlino avevano il medesimo scopo. Tutti questi oggetti hanno una datazione che va dal I secolo prima dell’Islam al I secolo dopo l’Islam. Dall’analisi dei numerosi reperti trovati in un pozzo in secca a Susa, gli studiosi hanno dedotto che nella città vi fosse, in continuità con la vetreria sasanide, una’industria vetriera molto fiorente, probabilmente attiva fino al IX-X secolo.
Nel periodo sasanide la metallurgia e le sue diverse applicazioni erano molto diffuse, e i metalli maggiormente lavorati erano l’oro e l’argento, il che testimonia il relativo benessere di cui godeva la popolazione. Gli oggetti prodotti erano commisurati alla situazione socioeconomica della committenza, e per questo sono di tipo e qualità molto diverse, da oggetti con raffinati e dettagliati rilievi, fino a semplici e approssimative incisioni. Una selezione di pochi ma molto preziosi esemplari si trova oggi nelle collezioni private e nei musei europei. Una collezione di più di un centinaio di coppe, placche e piatti scoperti fortuitamente nella Russia meridionale si trova oggi esposta all’Hermitage e negli ultimi decenni anche il Museo archeologico di Tehran è entrato in possesso di alcuni esemplari di grande valore ritrovati in Iran. La scoperta di queste opere fuori dai confini dell’Iran dimostra che, nonostante il modello socioeconomico sasanide si basasse sull’agricoltura, il commercio e lo scambio di manufatti artistici con i paesi confinanti o con altre corti era molto comune. Piatti ricoperti di metalli o pietre preziose venivano scambiati in Russia, nel Badakhshan e nel nord dell’Afghanistan, e la maggior parte di questi scambi avvenne nell’epoca di Cosroe I e II. Molti di questi oggetti erano copie di oggetti di epoche precedenti; dato che i Sasanidi mantennero i rapporti dei loro predecessori con varie zone dell’Eurasia, questi contenitori di argento erano spesso doni prodotti per gli omologhi di altri regni, utilizzati per conquistare il loro favore. Si trattava di coppe, vasi, calici, dalla bocca ovale o tonda, liscio o lavorati, recipienti per profumi e talora anche piccole figure animali, spesso cavalli. L’apice di questo genere di oggettistica venne toccato nel III e nel IV secolo.
Questi oggetti venivano prodotti in modo tale che ciascun elemento decorativo era fabbricato a parte, rifinito e poi saldato direttamente sull’oggetto (coppa, vaso, piatto ecc.). È, questa, una procedura tipica dell’Iran, sconosciuta in Grecia e a Roma. Il più antico esemplare conosciuto di questo genere di oggetti è la grande coppa di Ziwiyeh.
Tra le molte e diverse tecniche utilizzate in epoca sasanide ne esisteva una che prevedeva un rilievo preliminare e poi un’incisione. Incisioni e rilievi venivano poi ricoperti da una sottile foglia d’argento che ne aumentava il contrasto della decorazione. Un’altra tecnica implicava la creazione di incisioni sul corpo d’argento dell’oggetto, entro le quali veniva posto e battuto un filo d’oro. La medesima tecnica veniva impiegata nella produzione di altri oggetti come scudi, impugnature di spade, pugnali e coltelli, o anche di cucchiai e forchette. Esemplari molto belli di questi oggetti sono conservati nel Museo Reza Abbasi a Tehran. Oltre alla loro importanza storica, questi oggetti testimoniano che l’arabesco poi diffuso in epoca islamica ha le sue origini nell’Iran preislamico, nell’arte sasanide. Altri oggetti metallici venivano prodotti con stampi, e solo successivamente incisi; abbiamo un piatto decorato con pietre preziose, con la superficie dorata adornata da rubini, smeraldi e placche d’argento. L’immagine principale del piatto è quella del re, ritratto mentre siede sul trono, oppure a caccia o nel momento dell’incoronazione per mano del dio.
Tra le più belle coppe c’è quella famosa come “coppa di Salomone”, che apparteneva a Cosroe “Anushirvan” e che il califfo Harun al-Rashid donò a Carlomagno e che finì per essere inclusa nella collezione di Saint Denis. Oggi essa è conservata nel Cabinet des Medailles della Bibliotaca Nazionale di Parigi. Su questa coppa c’è l’immagine di Cosroe Anushirvan sul trono. Le gambe del trono formano due statue di cavalli alati e l’immagine è incisa su una sfera di pietra vitrea chiara e trasparente, mentre sulla base è incastonato nella parte interna un rubino rosso. Il re è seduto in un modo che lo fa apparire nell’atto di alzarsi in piedi, ritratto frontalmente, con la mano appoggiata alla spada, mentre accanto a lui si vedono alcuni cuscini uno sopra l’altro. Le bande della sua corona sono parallele e descrivono un ricciolo diretto verso l’alto. Intorno a questa immagine si estendono tre file circolari di vetro rosso e bianco, ciascuna con l’incisione di una bocciolo, che raggiungono il bordo della coppa in alto. I cerchi di vetro si allargano gradualmente man mano che proseguono verso l’alto, e gli spazi sono colmati da pezzetti di vetro verde di forma romboidale. Il bordo all’esterno è ricoperto di rubino, mentre il resto della coppa è d’oro. L’uso di tutti questi colori complementari mostra come l’artista fosse versato nell’arte di associarli tra loro. Questo modo di decorare gli oggetti con pietre preziose e colorate, tipica innovazione iranica, superò i confini dell’Iran fino a raggiungere le sponde dell’oceano Atlantico.
Un’altra coppa, tutta in argento e finemente sbalzata, appartenuta a Cosroe Anushirvan, si trova al museo Hermitage; la coppa ha la stessa scena del re che siede sul trono descritta sopra, con la sola differenza che sono presenti due servitori per ciascun lato del trono, pronti al servizio. Nella parte più bassa della coppa, vediamo ilo re a cavallo in una scena di caccia. Il fatto che il sia separato dal resto della superficie per mezzo di una linea orizzontale e il posizionamento delle mani lungo un’unica fila lungo l’ultimo terzo della verticale, mostra come gli artisti persiani fossero interessati allo studio delle proporzioni e alla divisione dello spazio in porzioni regolari, e la composizione assiale, insieme alla simmetria asimmetrica, testimonia la loro grande e profonda esperienza artistica.
Un’altra coppa dello stesso sovrano è esposta al museo di Tehran; parti dell’oggetto sono scomparse, senza che la sua struttura fondamentale ne sia stata compromessa. Il re è raffigurato seduto,come nelle coppe precedenti, sul trono, posto sotto un arco. Questo si trova in un quadrato, i cui lati verticali sono coperti da piccoli cerchi (sette per ciascun lato) nei quali sono incisi degli uccelli. Fuori dal quadrato – sorretto da due leoni – sono raffigurati due servitori, posti educatamente in posizione eretta. Sopra la cornice quadrata ci sono dei merli e una mezzaluna.
La coppa d’argento conservata al Metropolitan Museum di New York mostra invece Piruz a caccia di stambecchi, raffigurati mentre fuggono. Uno di questi animali è stato colpito da una lancia e viene calpestato dal cavallo al galoppo. Parti della coppa, che ha un diametro di 26 cm, sono decorate con filo d’oro battuto, e alcuni contorni, come quelli delle corna dello stambecco e della faretra del re, sono accentuati. Le immagini della coppa sono in argento e poste sopra un’altra lamina dello stesso metallo; e giunture sono poi riempite e polite finemente. Questa è una tecnica introdotta dai persiani. Questa coppa ha una composizione circolare e il re si trova all’incirca nel mezzo e nella parte superiore. È una composizione molto equilibrata, che ha diverse raffinatezze. La scelta dell’oro, dell’argento e dei contorni scuri mostra che nel periodo sasanide c’era un’attenzione particolare all’equilibrio dei colori nella rappresentazione.
Un piatto d’argento trovato a Sari, oggi conservato al Museo archeologico di Tehran, mostra il re sasanide alle prese con la caccia al leone, o nella difesa dal pericolo rappresentato del leone. Non si capisce, dalla corona, di quale re si tratti esattamente, anche se dai tratti sembrerebbe Hormozd II. La composizione è inedita: il corpo del leone, il movimento delle mani del re e il corpo del cavallo sono paralleli, e di fronte c’è un leone posto invece in verticale che dà la schiena al sovrano; forse l’autore voleva rappresentare il terrore del leone e la sua fuga di fronte al re. Sotto il corpo di un leone caduto ci sono delle ietre con forme geometriche, con qualche cespuglio d’erba che spunta qua e là. La scena ha le sue radici nell’arte antica iranico-sumerica, ripresa con maggiore raffinatezza nel disegno persiano. Cosa degna di nota, il movimento del cavallo è nel verso opposto a quello del re, cioè il re scaglia la freccia al leone che si trova dietro al cavallo. Le incisioni sono eseguite con grande attenzione e cura. Come è stato detto per i bassorilievi rupestri sasanidi, anche qui l’artista si astiene da ogni tipo di realismo, ottenendo una forza straordinaria nella rappresentazione della lotta del re con l’animale più fiero che si conosca, mostrando alla fine la vittoria dell’uomo, fiducioso in se stesso, sulla bestia.
Un altro piatto d’argento che ritrae Shapur II è conservato all’Hermitage. Il disegno del piatto è a rilievo, ma la composizione è simile a quella precedente. La sola differenza è che il leone in verticale sta attaccando il re, mentre in quello si trovava dietro, e la testa del cavallo è rivolta in basso, e la criniera di un leone caduto si agita nel vento, mentre le zampe sono completamente distese, a indicare che è morto. Il piatto è eseguito molto più finemente di quello precedente. Un altro piatto, d’oro questa volta, è conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, e mostra Cosroe II detto Piruz Shah mentre va a caccia. I vestiti sono rappresentati molto dettagliatamente, con una precisione che non si riscontra altrove. Re, cavallo e prede sono tutti nello stesso verso, e il disegno ha delle simiglianze con quelli ritrovati sui muri di Susa. Gli animali sono differenti, cinghiali, cervi, gazzelle, e molti giacciono colpiti sotto gli zoccoli del cavallo, nella parte più bassa della superficie. A destra, nel margine più esterno, si trovano altri animali che fuggono, mentre il re appare nella parte centrale.
In una coppa d’argento trovata a Daylaman, oggi conservata in una collezione privata, Shapur II, in piedi, sta uccidendo un cervo, con il ginocchio premuto sul fianco dell’animale, una mano sulle corna, mentre con l’altra tiene la spada che trafigge il cervo sulla schiena. Un’altra coppa, conservata all’Hermitage, presenta un re sasanide con la corona dotata di corna di camoscio, mentre a cavallo uccide un cinghiale che lo aveva attaccato spuntando dal sottobosco. Il disegno della coppa è incerto, ed probabile che si tratti di una coppa copiata dai Kushana sulla base di un originale sasanide.
Un altro oggetto metallico che è il caso di menzionare qui è una lunga caraffa con manico, in argento e con inserzioni in oro. Sulla pancia della caraffa è visibile un cervo, mentre sul collo dell’oggetto ci sono tre strisce in filigrana. La filigrana è un’arte iranica ancora oggi diffusa in alcune città, come ad esempio in Esfahan. La stessa lavorazione si può notare sui piedi della caraffa, mentre il cervo è inscritto in una cornice ovale la quale a sua volta è circondata da motivi ornamentali vegetali.
Alcune coppe sasanidi sono decorate sia all’interno che all’esterno. Ad esempio, la coppa del museo di Baltimora porta l’immagine di Cosroe II Parviz seduto sul trono retto da due aquile; in luogo dei servitori, sui due lati sono rappresentati delle danzatrici, ritratte mentre si muovono aggraziatamente suonando il daf. Dietro la coppa trovata nel Mazanderan, che oggi è esposta al Museo archeologico di Tehran, la superficie è stata divisa in quadri o cornici, ciascuno dei quali (sono quattro) ospita una danzatrice posta sotto un tralcio di vite incurvato. Sotto la coppa, in una cornice circolare formata da perle, è raffigurato un fagiano con una cresta a forma di mezzaluna. Un’altra coppa, a forma di barca, conservata a Baltimora, porta l’immagine di una danzatrice nuda che balla con una stola, mentre dei musici si esibiscono intorno a lei; la coppa era probabilmente destinata all’esportazione.
Ma torniamo ai piatti e alle coppe d’argento. All’interno della base di una coppa si vede Piruz Shah su una cavallo al galoppo, che lancia frecce contro le gazzelle in fuga. La scena ritrae due gazzelle, uno stambecco e due cinghiali che fuggono terrorizzati. La decorazione non è particolarmente bene eseguita e il re e il cavallo hanno uno stile differente.
Una coppa con la figura della fenice sasanide (simorgh) è stata trovata in India e oggi si trova al British Muesum. A Baltimora, invece, si trova una coppa con l’immagine di un leone alato, le cui parti lisce sono decorate in oro, e con rilievi molto semplici che tuttavia non hanno la raffinatezza della coppa con la fenice.
La caraffa alta 26 cm. trovata a Kalardasht, oggi al Museo Archeologico di Tehran, ha su entrambe le parti la figura di una danzatrice che si muove concitatamente. Da una parte una delle danzatrici ha un volatile appoggiato sul braccio e un cucciolo di sciacallo nell’altra, mentre un altro uccello si scorge ai suoi piedi,insieme a un altro animale che sembra uno sciacallo addormentato. Dall’altra parte della caraffa la danzatrice ha in mano una specie di tirso, mentre nell’altra un piatto riempito di qualcosa che sembrerebbe essere frutta. Alla sua destra c’è una piccola volpe (o uno sciacallo) e a sinistra un fagiano. Alla base, in un cerchio formato da rilievi semisferici, è incorniciato un drago iranico, mentre sui tre lati dell’immagine, sotto i piedi delle danzatrici, si vede la testa di un leone la cui bocca forma di fatto un’apertura sulla caraffa (Fig. 21).
Negli angoli formati dall’incontro degli archi ci sono dei piccoli musici impegnati a suonare il tar; gli abiti delle danzatrici non sono iranici, così come il copricapo. O. M. Dalton, in The Treasure of the Oxus, descrive una coppa simile a questa, suggerendo che tali oggetti forati servissero chiarificare il primo vino dell’anno, e che fossero probabilmente destinati all’esportazione. Secondo André Godard, le immagini dionisiache di donne danzanti ed ebbre, i ramo di tirso, gli animali e i musici sono senza dubbio elementi evocativi dei baccanali che si diffusero, dopo le conquiste di Alessandro, fino in India. Le danzatrici che ballano nel mezzo di arabeschi che ricordano intrecci di vite, i loro ornamenti e acconciature, sembrano indicare un’influenza esterna, oppure una deliberata scelta stilistica utilizzata per vendere gli oggetti in altri paesi. La coppa di Sari, oggi a Tehran, è d’oro ed ha decorazioni in argento sulla superficie.
Un’altra coppa, che si trova alla biblioteca nazionale di Parigi, ed ha un’apertura a forma di becco d’uccello. Su di essa ci sono le immagini di due leoni in posizione incrociata, con le rispettive teste ricolte l’una verso l’altra. I leoni hanno una stella a otto punte sulla spalla, cosa che rivela una stretta parentela con le immagini dei leoni del tesoro di Ziwiyeh. Alla luce di questo, è probabile che il luogo di produzione sia l’Iran occidentale, in una regione settentrionale degli Zagros. Su entrambi i lati dei leoni si trova un albero, molto simile a quello raffigurato a Taq-e Bostan, quindi anche alle palme ornamentali del tesoro di Ziwiyeh e delle coppe di Hasanlu e Kalardasht. In questo caso, possiamo apprezzare la continuità di elementi artistici e stilemi iranici nel corso delle varie epoche.
In una collezione privata è conservata la gamba di un trono che ha la forma di una zampa anteriore di un leone-aquila. Si direbbe che l’oggetto sia stato fuso separatamente e poi montato sul trono, per poi essere decorato e lavorato adeguatamente. Al Louvre è conservata una testa di cavallo ritrovata nei pressi di Kerman. L’oggetto è d’argento, e sulla superficie ci sono decorazioni in oro, compresi i paramenti, che sono saldati sulla superficie d’argento. La testa è alta 14 cm. e lunga 20, ha le orecchie che sporgono in avanti e l’espressione sembra quella di un cavallo al galoppo; si tratta con ogni probabilità di un elemento che faceva parte del trono di un sovrano.
La fabbricazione di contenitori e recipienti zoomorfi conobbe una grande diffusione nella Persia sasanide, soprattutto sotto Cosroe I e II, quando i commerci dell’Iran raggiunsero l’India, l’Asia Minore, la Russia sud-occidentale e l’Impero romano. Sono rimasti molti bellissimi oggetti che risalgono a questo periodo, tra cui un cavallo d’argento e decorato in oro, inginocchiato a terra e con la criniera annodata sulla testa. Sopra il garrese dell’animale, sono raffigurati due busti femminili a rilievo, con abiti e corona di stile sasanide, inscritte in una cornice dorata simile a una catena. Una di esse porge la una corona, mentre l’altra la prende, e il morso dell’animale è simile agli esemplari sasanidi di bronzo o ferro trovati a Susa. Questi pezzi sono caratterizzati da un realismo sorprendente, lo stesso realismo che si trova in altre due coppe, rispettivamente a forma di testa di cavallo e di gazzella. La prima è d’oro, ha i paramenti intarsiati, e una scritta in pahlavi sasanide ci rivela il nome del suo proprietario. La testa della gazzella ha invece lunghe corna circolari, ed è conservata nella collezione privata Guennol. Le corna sono composte nel seguente modo nell’ordine:un anello d’oro, uno d’argento, uno d’oro e quattro d’argento, un d’oro e sei d’argento, con la punta piegata ancora in oro. Le orecchie dell’animale sono allungate e a punta. Al Louvre si trova inoltre un bellissimo piatto d’oro decorato con cristalli colorati e incisioni, ritrovato a Susa, e un bel ciondolo con pietre preziose, rubini e zaffiri di forma quadrata o circolare, sul cui rovescio è inciso in pahlavi il nome di Ardashir e che era probabilmente destinato ad essere appeso a una cintura.
Un altro ciondolo d’oro a forma di cinghiale, con l’immagine a rilievo di un leone che aggredisce una vacca, nello stile dei bassorilievi di Persepoli. Sulla coscia dell’animale si aprono due ali. Il cinghiale è il simbolo di Verethragna, dio della vittoria, e si trova anche sui sigilli ufficiali reali.
All’inizio del periodo islamico molti piatti d’oro e d’argento venivano fusi per la produzione di monete, destino che ebbero anche molti oggetti di bronzo. Eppure, se dovessimo giudicare dal mezzo busto reale conservato al Louvre, dovremmo concludere che la produzione artistica in bronzo godeva in quel periodo di ottima salute. Si tratta del mezzobusto di un re, o principe con una corona alata sormontata da una mezzaluna e una sfera, con una mezzaluna più piccola nella parte frontale e due file di perle collegate da una pietra più grande. Alcuni orientalisti ritengono, a torto, che si tratti di un’opera tarda, post sasanide; invece essa è sasanide, ritrae un giovane Piruz Shah, il cui volto è però stato rimaneggiato, traendo in inganno gli studiosi. Esiste un mezzo busto simile, incluso in una collezione privata, che rappresenta Piruz Shah giovane ed è meglio conservato del precedente. Infine, un altro oggetto ascrivibile alla stessa categoria, è la testa bronzea di una regina o principessa sasanide, che porta sulla testa una spilla e che è stata per un periodo in mano agli antiquari di Tehran. Il viso è molto semplice, e al posto delle pupille è stata incastonata una pietra preziosa; l’acconciatura è tipicamente sasanide ed è incorniciata da un diadema.

 I tessuti
La seta

Il tessuto sasanide per eccellenza è la seta, anche se il suo uso era riservato normalmente alle famiglie più abbienti. È ovviamente rimasto poco di questo materiale, ma quello che abbiamo è sufficiente a dimostrare che esso era diffuso in ogni angolo d’Iran nel IV e III. I motivi della seta sasanide, a volte leggermente modificati, erano imitati a Roma, Bisanzio e anche nelle aree recentemente guadagnate all’Islam.
La scoperta della seta si deve ai cinesi, i quali per lunghi secoli ne preservarono il segreto, monopolizzando il mercato delle esportazioni. La via della seta attraversava infatti la Persia e arrivava a Roma, partendo dalla Cina attraverso il Turkestan. Intorno a circa il I secolo a. C, la seta divenne così popolare che i poeti satirici usavano celiare coloro che vestivano abiti in seta. Tessuti di seta si trovano in Iran e Siria all’inizio dell’era cristiana, ma erano costosissimi nell’impero romano, a causa dei dazi imposti dai paesi che doveva attraversare per giungere in Europa. Nei secoli IV e III, i Persiani producevano la seta autonomamente e l’industria serica si sviluppò così tanto da rendere i tessuti di seta persiani i più ricercati e preziosi. Dai secoli III e II la tessitura divenne così popolare in Persia che l’esportazione del prodotto finito sostituì quella della seta grezza. Lo splendore della seta persiana divenne motivo di preoccupazione per la chiesa di Bisanzio, a tal punto che nell’impero la seta iraniana venne vietata e dichiarata illecita. Possiamo ricostruire i cambiamenti dei motivi dei tessuti di seta grazie ai bassorilievi della seconda metà della dinastia sasanide, poiché non sono rimasti tessuti risalenti a quell’epoca. La più antica rappresentazione murale, risalente alla prima metà del IV secolo, mostra l’abito multicolore di un cavaliere decorato da palme dorate e rombi perfettamente geometrici e regolari. Nei bassorilievi di Taq-e Bostan, invece, i motivi ornamentali sembrano più ricchi e diversificati. In una scena di caccia, l’abito del sovrano è abbellito dalla ripetizione del motivo della fenice arricchito da forme circolari.
Dal X secolo il commercio di reliquie cristiane divenne molto comune. Ogni luogo di culto aspirava ad avere ossa o altri oggetti appartenuti a santi come veicolo di benedizione; le reliquie erano poste in scrigni foderati con antiche sete sasanidi, per poi essere inviate in Europa, cosa che ha permesso di scoprire importanti sete quando gli scrigni venivano aperti. Le chiese merovinge erano decorate con grandi drappi sasanidi o prodotti secondo lo stile sasanide nei laboratori dell’Iran occidentale (Gond Shapur, Ivan-e Karkheh, Shushtar) dopo la caduta della dinastia. Ancora oggi, in molte cattedrali europee e nel museo di Cluny, a Parigi, si possono ammirare esemplari di sete sasanidi. Alcune sete sasanidi sono emerse dai deserti della Cina o in Egitto.
Il disegno di queste sete spesso consisteva in larghi cerchi circondati da altri cerchi più piccoli che avevano l’effetto di file di perle, molto simili ai motivi degli stucchi di Ctesifonte che abbiamo visto sopra. I cerchi erano tangenti, oppure collegati da piccoli boccioli circondati da altri piccoli cerchi. Talora, tra due cerchi separati veniva inserito qualche disegno ornamentale.
Al centro dei cerchi erano raffigurati stilemi iranici, come stambecchi, la fenice, pavoni o fagiani, ma a volte anche semplici disegni geometrici. In un cerchio di un tessuto trovato ad Astana (Turkestan cinese) è raffigurata la testa di un cervo con la bocca aperta. L’esemplare conservato a Nancy, nel museo Lorrain, un tempo copriva la cripta di Sant’Amon nella chiesa di St. Gengoult, a Toul, presenta dei cerchi con l’immagine di una palma con due leoni posti ai lati uno di fronte all’altro, sotto i quali si vede un arabesco ogni margine del quale termina con un fiore di melograno. Ciascun cerchio ha tre margini, il primo con disegni di piccole sfere, il secondo delle catene, il terzo formato da una sequenza di triangoli chiari e scuri. Tra i cerchi sono raffigurati dei cani che corrono uno dietro l’altro, e l’immagine di piante stilizzate tipiche dei tappeti dei nomadi di Persia. Questi stilemi sono ancora oggi comuni presso alcune popolazioni rurali e nomadi dell’Iran. Il tronco dell’albero è molto simile a quello chiamato heibat-lu, tipico dei tappeti prodotti nell’Iran meridionale, segnatamente nel Fars.
In un’altra preziosa stoffa, conservata nella cattedrale di Sens, si trovano dei motivi molto simili a quelli presenti sulla seta di St. Gengoult. Anche in questo caso, due leoni sono raffigurati nel cerchio, ma senza la palma. Sotto ogni due file di cerchi ci sono due file orizzontali di animali (forse cani) che corrono, e tra queste file c’è di nuova la palma, stavolta eseguita in modo maggiormente geometrico.
Nei Musei Vaticani è conservata una seta che risale al VII o VIII; lo sfondo della seta è azzurro, mentre lo sfondo dei cerchi, tangenti e contornati da file di perle, è verde chiaro. Le piccole perle sono verdi e blu e disposte su sfondo bianco e in ogni cerchio ci sono due leoni azzurri, in piedi in posizione frontale, l’uno di fronte all’altro. Le ali e gli artigli sono bianchi,mentre lo spazio dell’area lasciata libera dall’incontro dei cerchi è riempita con arabeschi vegetali che saranno il modello per motivi floreali che divennero molto comuni successivamente. Il corpo dei leoni è avvolto in una bella striscia di colore giallo e sulle spalle dell’animale c’è un cerchio con due piccole ali, mentre sulle cosce c’è una perla verde al centro di un cerchio bianco.
Due pezzi di seta sasanide sono stati scoperti nel cimitero di Antinoe in Egitto, uno decorato con l’immagine di un camoscio (simbolo della gloria divina) e l’altro con quella di un cavallo alato, variante di uno dei simboli di Verethragna. Questa immagine si trova anche tra i bronzi del Luristan, così come sull’ostudan di Bishapur, dove appare trainare il carro del sole. I nastri legati al collo e alle ginocchia dell’animale, insieme alla mezzaluna con la sfera che si vede sulla fronte, sembra fare del disegno una rappresentazione della potenza divina. Nell’altro pezzo di Antinoe, gli animali non sono inscritti in cerchi, bensì disposti in file ordinate, ma in posizioni diverse. Una tappezzeria in mostra a Firenze riporta la fenice raffigurata in una serie di cerchi, non dissimile da quella conservata al museo delle arti decorative di Tehran; la differenza qui è che se nel caso di Tehran c’è una serie di motivi ornamentali verdi e gialli su sfondo nero, quello di Firenze presenta decorazioni gialle, ocra e celesti, adagiate su uno sfondo blu scuro. In una bellissima stoffa, l’immagine di un gallo con una collana di perle e un’aura multicolore intorno alla testa è posta in un cerchio, il cui anello è formato da delle immagini di piccoli cuori verdi e rossi su fondo dorato, dotati di una propria speciale bellezza. Il gallo è a sua volta rosso e verde e le sua ali sono rappresentate in modo molto geometrico. Lo spazio tra i cerchi è riempito con medaglioni, boccioli e motivi vegetali di colore rosso e verde scuro. Il gallo ha una forma disegnata in modo molto preciso,e l’uso sapiente dei diversi colori, rosso, blu, verde, grigio, gli dona una forza particolare.
Ancora nei Musei Vaticani, è conservato un drappo che, su fondo giallo-oro, presenta delle cornici circolari che sembrano emergere dalla superficie, nelle quali sono iscritti degli strani uccelli di profilo, con le ali di forma geometrica; gli animali hanno un ramoscello nel becco e degli speroni sulle zampe; nel complesso, quest’uccello assomiglia al fagiano asiatico. Il bordo della cornice, che presenta dei punti piuttosto spessi, è in tutto e per tutto simile ai cerchi del Mikado Shomu giapponese. Questo dimostra fino a che punto l’arte sasanide abbia esercitato un’influenza, mentre un’analisi più dettagliata potrebbe rivelarci in che misura essa abbia influenzato forme d’arte come quella del tesoro dello Shoso-in oppure degli affreschi del bacino del Tarim, nel Turkestan cinese.
Ci sono anche stoffe che rappresentano figure umane, soprattutto in scene di caccia a cavallo o a piedi, con o senza l’ausilio del falco. La maggior parte risale al secolo V fino al X e secondo gli esperti si tratta di copie egiziane degli originali sasanidi. In questi esemplari, gli uomini sono raffigurati al centro di cerchi, disposti parallelamente agli animali, di fronte o schiena contro schiena. Il re è a cavallo, con il falco al braccio, mentre la cavalcatura calpesta un leone caduto; ai due lati, specularmente, due palme. Una variante è il re a cavallo di un elefante alato,che taglia in due il nemico, mentre un leone attacca una gazzella. Tra i cerchi, che tendono a diventare dei rombi, ci sono due esseri cornuti, simili a dei gatti selvatici con corna caprine, posti a entrambi i lati delle palme (Yale University e collezione privata) . In un altro drappo, si vede Cosroe assiso sul trono mentre i suoi soldati sono impegnati a combattere gli Abissini (Museo di Lione). Sul fatto che si tratti di opere sasanidi, dal punto di vista della lavorazione, del colore e del motivo, non ci sono ragionevoli dubbi; tuttavia, dal momento che manufatti simili venivano prodotti anche in Egitto e altrove, l’autenticità degli stessi non è del tutto fuori di dubbio.
Secoli dopo la caduta della dinastia, l’arte sasanide continuò a essere imitata in nazioni diverse, in Giappone, Cina, India, nel Turfan, in Asia Minore, in Europa e in Egitto.

 Tappeti et similia

Non abbiamo nessun tappeto pervenuto dall’epoca sasanide, però sappiamo che gli Achemenidi usavano il tappeto, arrivando addirittura all’esportazione di questo tipo di manufatto (si veda il tappeto di Payzirik). La storia inoltre parla di un prezioso tappeto chiamato “La primavera di Cosroe”, in seta, con pietre preziose e perle incastonate, presumibilmente saccheggiato durante le conquiste arabe, fatto a pezzi e diviso come bottino tra i soldati. Menzione inoltre va fatta di un preziosissimo tappeto che copriva il tappeto dell’Apadana a Bishapur, che dovette avere figure umane e animali coordinate con le decorazioni ceramiche alle pareti, e che probabilmente fece la stessa fine del primo.
Gli esperti di kilim inoltre ritengono che il tappeto a nodo piatto fosse molto diffuso in epoca sasanide, anche se non abbiamo alcuna testimonianza scritta, né tantomeno esemplari o reperti. È per questo che il capitolo sui tappeti è assente dai manuali di arte persiana degli orientalisti, sebbene i più ritengano che quest’arte fosse comune.

 Musica, poesia e altre arti

Shapur I, dopo la costruzione di Gondi Shapur nel Khuzestan, vi fondò una grande accademia, in cui venivano coltivate tutte le scienze dell’epoca, insegnate da maestri greci, romani, persiani, siriaci, indiani e altri. Purtroppo non esiste alcun documento di questa attività. Una serie di tradizioni ci informa che dopo la conquista araba della Persia orientale e la caduta di Ctesifonte, alla domanda “che cosa ne facciamo della biblioteca di Gondi Shapur”, sembra che il secondo califfo rispose: “ci basta il libro di Dio”. La risposta fu la ragione dell’incendio che distrusse la biblioteca, la quale – ci dicono alcune fonti orali e alcuni storici arabi – conteneva più di mezzo milione di libri.
Nonostante questo, sappiamo che l’Arjang, la maggiore opera di Mani, era completamente illustrato e che grandi musicisti, come Nakisa e Barbod erano figure molto note all’epoca, soprattutto alla corte di Cosroe II. La letteratura persiana riporta i nomi di strumenti musicali dell’epoca sasanide. Per esempio, Hafez quando parla dell’usignolo che canta dal ramo di un cipresso la melodia degli stati spirituali – insieme alle testimonianze figurative che abbiamo su coppe e piatti – indica che la musica era molto diffusa nel periodo sasanide e molto probabilmente la musica tradizionale dell’Iran odierno ha le sue radici nella musica sasanide.
Dalle immagini degli abiti e dalle sculture rupestri siamo in grado di affermare che il ricamo la filigrana e altre arti erano molto sviluppate e che le radici di queste e di altre, come la miniatura, affondano nell’epoca sasanide. Molte di esse verso la fine del breve periodo dei Pahlavi erano sul punto di essere dimenticate, ma ebbero una rinascita con l’avvento della Repubblica Islamica dell’Iran. Parleremo di queste arti nella terza parte di questo studio.



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